Isolamento e stagnazione: come la pandemia ha messo alle corde la natura umana


di Stefano Zangrando, docente, traduttore e autore
La maggiore impasse da pandemia, per chi è recluso in casa e non ha contratto il Covid-19, parrebbe quella di non riuscire a farsi un’idea univoca su quel che sta accadendo. Il pensiero è sollecitato ogni giorno da spunti contraddittori, i social e gli altri media pullulano di posizioni contrastanti, più o meno argomentate, più o meno articolate, più o meno sommarie. Ora ci sembra di poter aderire all’una, ora all’altra, mai però in modo incondizionato. Bastano un paio d’ore e già dobbiamo ricrederci, perché qualcuno, o una notizia, o l’opinione di un altro esperto, o di un intellettuale, ci appare più appropriata o condivisibile della precedente. Ma la circostanza storica è inedita, almeno per l’Occidente, la riflessione fa spesso cilecca.
E intanto il tempo dei giorni continua a stagnare, uguale a se stesso, scandito soltanto, per chi lavora in smart working, da videoriunioni, videolezioni, videocompiti di ogni sorta. Si soffre senza distinzione d’età. Ora più, ora meno, ma si soffre. I pochi che hanno un cortile o un giardino hanno più respiro, se la passano meglio. Gli altri, reclusi in appartamenti via via più claustrofobici, traggono il minimo conforto possibile dall’uscire per la spesa o per due passi nei pressi dell’abitazione. Il contatto umano, ciò che più di ogni altra cosa ci fa umani – in tedesco il prossimo, il vicino, il simile è chiamato Mitmensch, la persona che è con me, e io con lei – continua a mancare. Soprattutto per chi vive da solo e sconta un aggravamento di disagi psicologici che fino a un mese fa poteva affrontare con auspici migliori, o sui quali al limite poteva più facilmente sorvolare. C’è poi, più impotente di tutti, chi sta subendo violenze, ogni giorno, o chi non ha più i soldi per pagare l’affitto, o perfino la spesa.
Chi esce a lavorare, lo fa con il timore di contrarre il virus e portarlo in casa, fra i propri cari. Non solo chi opera nella sanità o nel commercio alimentare, ora anche i lavoratori dei settori che vanno riaprendo, ma senza che ancora si parli di test immunologici diffusi, i soli che garantirebbero una incolumità sorvegliata. La politica, in un frangente in cui più che mai il suo ruolo potrebbe tornare centrale nella vita collettiva e di ognuno, pare non saper rispondere se non protraendo l’incertezza, ripetendo metafore ormai solo irritanti – “non abbassare la guardia”, “insieme ce la faremo” – e ribadendo un’incompetenza inscalfibile, che solo in rari casi sembra cedere il passo a una qualche forma di consapevolezza delle proprie funzioni e possibilità. L’illusione della ripartenza, in mancanza di piani di salute pubblica ben ponderati, è già oscurata dalla prospettiva della prossima ondata di contagi, che porterà a sua volta nuove misure restrittive. E nuova sofferenza.
Si legge meno, alcuni non lo fanno più, ci si butta su cucina e bricolage. Ma la motivazione patisce a volte cedimenti inattesi, la creatività spesso ristagna. Molti sognano di camminare in mezzo al verde, o fra la gente, o di fare un bagno in mare, o in un lago. È la natura umana che urla muta i propri bisogni primari. Non perché rimuova il pericolo della morte, ma forse proprio perché sa che la morte dopotutto è da sempre un’opzione, naturale appunto, per quanto da evitare. A patto che frattanto si possa tornare e restare umani, ovvero: in relazione, in contatto, e in uno spazio e in un tempo. Ma è proprio questo che è venuto a mancare: in spazi la cui abitabilità è incrinata dalla reclusione, in un tempo svuotato di senso e direzione, nel divieto di stare vicini, per scampare alla morte ristagniamo nell’illibertà. È questa la vera impasse.
Non poter decidere dove stare, non con chi stare – foss’anche da soli, ma per scelta – non poter fare programmi, non poter neppure decidere di non farli: è così e basta, una sorta di perversa coazione allo zen, una presentificazione dell’essere in salsa civico-scientista, con gli ingredienti meno adatti a una vera pratica meditativa. Solo il lavoro, per chi ce l’ha ancora, offre un qualche orizzonte, ma è di mera sussistenza economica. Lavorare occupa, ma non basta a farci umani. Si vive così, in una specie di non-vita che non è neppure esistenza, perché esistere significa stare in un fuori, nella realtà. Mentre la pandemia, per chi non muore o non cura i malati, ha reso tutto molto più irreale, con o senza pixel. E ci si chiede come mai le ore, che all’inizio del confinamento domestico parevano non finire mai, adesso passano sempre più vuote e veloci. Ma lo aveva già mostrato Thomas Mann ne La montagna incantata: il tempo scorre più lento, perché più intenso, quando ha una densità e una cornice di senso, non quando tutto ciò è rarefatto dall’inerzia, dall’eterna ripetizione, dalla noia improduttiva o da un’operatività ridotta all’osso.
Dopotutto non stiamo vivendo tanto diversamente da Hans Castorp e dagli altri pazienti del sanatorio di Berghof. Solo che loro, per lo meno, avevano un prossimo, erano insieme, erano Mitmenschen. Noi siamo solo più singoli esseri umani, ognuno alle prese con la propria solitudine irriducibile – anche se non viviamo da soli: perché ognuno è da solo nel suo confronto intimo e profondo con la pandemia. Osserviamo la vita e la morte come da una regressione amniotica, ignari di altra luce che non sia una nostra fioca luminosità interiore, un’energia vocata agli slanci ma per ora sospesa, revocata appunto. A scongiurare la paralisi è solo il rumore di fondo della vita, quella poca, che c’è fuori.