Lo spettacolo di Campovolo che palesa il bluff fugattiano della Music Arena: a Trento si alza bandiera bianca per un progetto che somigliava più a un capriccio


Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
Bandiera bianca. Ci si arrende. Si archivia – impotenza e disperazione – qualsiasi accenno critico. Queste frustranti considerazioni vengono dalla recente visione della maratona musicale che ha riunito il meglio del meglio della nazione canterina per portare solidarietà non parolaia (soldi, insomma) ai romagnoli. Un popolo, quello di Romagna, finito a bagno nel fango di un’alluvione che è drammaticamente nulla più di un prologo di come una natura provocata dall’insulsaggine umana reagirà sempre più spesso. Con sempre maggiore violenza e sempre più fiumi di lacrime di coccodrillo dei governi (di ogni colore, purtroppo).
Sereni, questo sarà l’unico accenno ambientalista di questo articolo. Ormai si è capito che il nichilismo economico si fa un baffo financo dell’istinto di sopravvivenza della specie. Torniamo al dunque. Il godimento ammirato per le cinquanta canzoni singole (e in qualche indimenticabile duetto) di “Italia loves Romagna” è stato però meno immersivo, meno totalizzante, di quello che avrebbe potuto essere. L’ottima regia dell’evento ha infatti alternato le esibizioni (belle, alcune commoventi per pathos) dei protagonisti alle inquadrature che il drone regalava dello spazio che ha ospitato il mega concerto: l’Arena Campo Volo di Reggio Emilia.
Noi trentini, noi che per due anni ci siamo dovuti sorbire la frottola della Trento Music Arena, avremmo dovuto memorizzare quelle immagini anche a rischio di distogliere l’attenzione per Zucchero, Elodie, Giorgia, Elisa, Pausini e tutti gli altri. La suggestione di quelle riprese aeree replicate per tutta la eterna ma piacevole durata della manifestazione ha provocato, infatti, un misto tra rabbia e imbarazzo. Si è automaticamente ripensato al presappochismo e all’ipocrisia elettorale che prima, durante e dopo l’affaire (per lui) Vasco Rossi ha tentato di far credere ai trentini (e all’Italia delle migrazioni musicali) che Trento avrebbe avuto in dono dalla ditta “Fugatti and friends” uno spazio fisso, vero, attivo e adatto per la musica a grandi numeri.
Per chi si fosse perso la plastica ed incontestabile differenza tra la realtà ed una barzelletta triste e mal raccontata basta un giro su Rai Play. Occhio alla bile, però. Ad ogni inquadratura dell’Arena Campo Volo di Reggio Emilia (il luogo di quell’evento) verrà spontaneo il paragone con quell’area San Vincenzo che a Trento Sud ha ospitato Vasco nel maggio dello scorso anno. A Trento la Provincia ha chiamato e continua imperterrita e beatamente a chiamare “Arena” una costosissima improvvisazione. A Trento si è speso l’inverosimile per adattare un budello costretto tra limiti invalicabili e rischiosi (ferrovia, strada angusta, tangenziale, terreni aeroportuali) ad una “fine” che si è spacciata per “inizio”. Chi sa di eventi musicali e non tifa contro per partito preso il 22 maggio del ‘22 pregò Santa Cecilia (protettrice dei musicisti). Sperò nel meteo e nella fortuna. La santa ascoltò ed intercedette: andò benone (ma fu deretano gigante) nonostante le vie di fuga inesistenti, i rischi dietro ogni angolo di assembramento, gli scavalcamenti della ferrovia, l’avvicinamento e soprattutto l’uscita dalla San Vincenzo.
Ma poi? Ma quel “dopo Vasco” delle promesse solenni con i nasi politici lunghi quanto l’Autobrennero? Zero tituli. Anzi, titoli che vanamente chiedevano “E adesso”? Che ne è stato dei sei o sette concertoni che nel 2023 avrebbero dovuto far considerare un investimento i soldi pubblici buttati? Non ne è stato, naturalmente, nulla. Bando deserto perché non c’è privato che possa rischiare un tonfo economico accollandosi milioni di spese accessorie come quelle che la Provincia ha sborsato per Vasco Rossi (mobilitando non certo a gratis protezione civile, sanità e mille altre voci di un “eccetera” che nel bilancio di un mega concerto fanno tremare i polsi a chi deve investire del suo e non il denaro della comunità). È proprio qui che torna il paragone con Campo Volo, con Reggio Emilia. Un conto, infatti, è progettare e conseguentemente investire (qui si applaudirebbe) con i crismi della serietà. Un altro conto è raccontare e raccontarsi panzane a colpi di ruspa ma senza un briciolo di vera prospettiva: senza un’analisi, una valutazione di pro e contro socio economico ambientali. Un piano insomma.
Non serve essere né architetti né urbanisti per ricavare dalle immagini aree dell’Arena Campo Volo un sentimento opposto a quello che suscita l’area san Vincenzo. Anche “ad occhio” spicca una collocazione funzionale dal punto di vista viabilistico (raggiungibilità comoda e multipla, sicurezza, equilibrio urbanistico e sostenibilità, eccetera). Anche ad occhio si intuisce che quell’Arena modulabile (da mille, a cinquemila, a ventimila fino a centomila spettatori secondo le proposte) poggia sulla sostanza di un progetto valutato in ogni particolare e non su un capriccio in Fuga…tti dalla realtà di un universo organizzativo e logistico che per i mega concerti coinvolge decine e decine di aspetti importanti (tra dotazioni fisse e mobili).
Sarebbe lunga, troppo, lunga spiegare cos’è l’Arena di Reggio Emilia. Il materiale per farsi un’idea è facilmente consultabile e dunque ci si limita a qualche spunto. Il rapporto solido tra pubblico (la Regione ed il Comune che hanno fatto partire la cosa) e il privato che ha realizzato e che gestisce (una società formata ad hoc, la Rcf degli impianti audio fissi, le grosse aziende coinvolte, il vialone interno con tutti i servizi compresi 400 “cessi” e i punti fissi di soccorso con le vie protette per raggiungere gli ospedali, i parcheggi a iosa perché siamo in pianura, la flessibilità delle strutture che si modificano in base al tipo di proposta e via invidiando). Il tutto (due anni per la realizzazione prima dell’inaugurazione con i centomila di Liga) ragionando “collettivamente” (è la democrazia, bellezza) su un bacino di utenza di sette milioni di abitanti e su un’attrattività che rende l’area appetibile per distanze da parecchie regioni del centro nord (Trentino compreso).
Quell’ovale emiliano con il 5 per cento di pendenza (così si vede, dappertutto) poteva essere un paradigma? Forse sì, forse no. I contesti, le storie, le culture non sono mai bazzecole ma guardarsi attorno, andare a lezione da chi fa e sa fare, non dovrebbe mai essere un’onta per chi amministra. Ma siamo trentini, facciamo da soli e troppo spesso facciamo male: incensandoci oltretutto. Nel pieno della disperazione la Provincia ha adesso tirato in mezzo il Centro Santa Chiara. Ha messo lì altri 250 mila euro immaginando che un ente ottimo nel programmare nei teatri e in piazza ma da attrezzare sui grandi spazi possa far cantare qualcuno alla San Vincenzo prima del voto di ottobre.
Probabilmente qualcosa si farà, magari pagando qualche surplus per dirottare su Trento una o due date extra di tournée che si chiudono con due anni di anticipo. Anche fosse, sarebbe una pezza su una “bugia” (l’Arena permanente): idea tanto “bucata” da non essere più rammendabile con altri espedienti a carico delle finanze pubbliche. Bandiera bianca. Così si è iniziato e così si finisce questo sfogo: d’altra parte a Trento non ci sono i mulini su cu schiantarsi come Don Chisciotte. La fatica di un pensiero approfondito e coerente poi non è della politica locale (di governo ma anche di tentennante opposizione). Cosa saranno mai un sacco di soldi spesi bluffando, una sporta di promesse mancate, un secchio di distinguo con il freno a mano tirato di fronte all’ego ripagato di un presidente di Provincia che assieme al sindaco di Trento può alzare il dito in segno di vittoria nella foto storica assieme al Vasco nazionale?
