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Il caso Ghali e Dargen e la politica che da destra a sinistra si straccia le vesti contro e a favore: una povertà assoluta, roba da Sanscemo

DAL BLOG
Di Carmine Ragozzino - 15 febbraio 2024

Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino

C’era anche il festival di Sanscemo. Lo fondarono nel 1990. Nobilitava la demenzialità canora. Si svolse per svariate edizioni a Torino, al Palacavolfiore. A Sanscemo si mettevano in scena l’assurdo e l’irriverente. Si parodiava quel che accadeva all’Ariston: eccessivamente. Non c’era televoto. Il consenso ed il dissenso si manifestavano tirando ortaggi, frutta e perfino pezzi di carne. Sanscemo finì ma oggi ci vorrebbe ancora. Sarebbe un utile sberleffo agli allucinogeni ideologici del “politicantato” nazionale (il termine non è sul vocabolario ma calza). La politica, cioè, che si scanna senza vergogna anche su Sanremo (quello canonico, quello ufficialmente serio). Sanscemo liquiderebbe i vaniloqui in una risata.

 

Bisognerebbe dunque tornare di corsa a quegli ortaggi. A quella frutta da tiro. No, non per dileggiare il Sanremo “vero” che è festival e festa interclassista. Si dovrebbe rieditare Sanscemo per bersagliare di broccoli ed arance marce chi quest’anno ha messo in croce un paio di cantanti. Due artisti bravi e per nulla rivoluzionari. Due cantanti dotati di una normale dose di umanità. C’era bisogno di un esempio per confermare l’imbarazzante tesi di una cultura (non solo politica) in rapidissimo decadimento? Eccolo: l’attacco da destra a Ghali e Dargen, così come la difesa da sinistra di Dargen e Ghali. Due opposti che sono lì a dimostrare che oltre la pietà “l’è morto” (e sepolto) anche il buonsenso.

Far passare per provocatori uno dei rapper finalmente meno prigioniero delle rime furbesche ed un artista piuttosto abile nel vestire di leggerezza il minimo sindacale dell’impegno civile è un esercizio di miseria. Una miseria praticata da chi è privo di dignità propria e si appropria della dignità altrui. Per demolirla.

 

Si potrebbe disquisire a lungo (e purtroppo inutilmente) sul quoziente intellettivo di chi invoca la “par condicio” anche in fatto di bombe. Sono bombe deficienti, altro che intelligenti. Sono bombe che privano degli arti e di futuro i bambini, gli adolescenti, le mamme, i nonni e le nonne. Ci deve essere una moria di neuroni se la politica vuole imporre ad un cantante di abdicare. Di abdicare al suo essere persona prima che essere artista. Un artista (bravo o no, poco importa) non può essere costretto al salomonico. Non può e non deve dare un colpo al cerchio e uno alla botte per non turbare un ambasciatore. Soffre però di necrosi cerebrale anche in chi elegge ad “eroe” il cantante che va controcorrente. L’eroe canterino non può supplire con la sua notorietà ad un drammatico anonimato di idee, consenso e carisma.

 

L’uno e l’altro, Ghali e Dargen, hanno solo colto l’attimo. Hanno sfruttato l’insignificante tempo del post esibizione. Lo hanno fatto, senza strategia, per materializzare un disagio personale e collettivo. Per questo, e solo per questo, vanno ringraziati. Il disagio è personale e collettivo di fronte all’impotenza e alla disperazione per un calvario umanitario. Un’apocalisse che ha nella sproporzione la sua terrificante specificità. Nel chiedere semplicemente vita - senza urlare, senza accusare, senza fare comizi di geopolitica un tanto al chilo – i due cantanti non hanno fatto distinzioni. Questa la loro colpa? È un reato non aver scelto il silenzio – (canta e basta, che ti passa?) di fronte al rischio di essere arruolati nell’uno o nell’altro campo in guerra?

 

Non ci siamo. Davvero si può pensare che non citare il massacro medioevale di ottobre e rifiutare l’altrettanto medioevale reazione sia “tifare” per qualcuno? Davvero qualcuno può pensare che Ghali e Dargen stiano dalla parte dei carnefici inumani che hanno fatto strage arrivando in moto o in deltaplano? Si fa un cattivo servizio al Ghali e Dargen se li si toglie dal loro mondo – la musica – per scaraventarli nel pantano della politica. Si fa loro torto iscrivendoli ad un partito senza chiedere il loro permesso. Si farebbe, al contrario, un buon servizio alla salute mentale se finalmente si lasciasse spazio anche all’istinto. Specie se l’istinto è un sentimento nobile e salvifico. L’istinto della pace, della fine di un orrore senza fine che genererà odio per chissà quanti decenni, non è una “presa di posizione”. Non è parteggiare né issare una bandiera a scapito di un’altra. L’istinto della pace è un sentimento che troppi vorrebbero muto e che invece va urlato. Un sentimento che non si può silenziare in nome di “distinguo” che non salvano esistenze innocenti.

 

Di cantanti militanti probabilmente si può anche fare a meno. A “persone” che “in più” cantano – con tutte le loro angosce e con tutte le loro convinzioni – non si può fare rinunciare. Così come non si può credere che Sanremo debba essere una bolla, abbandonando la realtà (specie quella quotidianamente lancinante della cronaca) per costruire un irreale mondo parallelo di cuore, pizza e amore. Per fortuna il festival, Sanremo, asettico è mai stato. Per fortuna la realtà ha sempre permeato canzoni e canzonette da Nilla Pizzi in poi. Ci furono il proto ambientalismo di Celentano, la ragazza madre di Lucio Dalla di 4 marzo ’ 43, l’inno alla partecipazione di “Si può dare di più”. Ci sono mille altri brani che leggono il buono ed il cattivo del mondo.

 

Per fortuna dopo Ghali e Dargen ne verranno altri (anche di peggio, anche di meglio). E per fortuna ne diranno altre. Lo faranno cantando. Lo faranno parlando. Non si faranno annullare dal contesto o dall’opportunità. Si, perché sarà anche vero che “Sanremo è Sanremo” ma senza la libertà – anche quella di semplificare la complessità anteponendo l’anima a tutto il resto – chissà come “Saremo”. Come diventeremo.

 

PS: ultim’ora

 

È di ieri l’uscita di un sottosegretario leghista che propone il Daspo per chi a Sanremo o altrove “utilizza il palco per fini diversi da quelli della musica”. Che cantino e basta. E se non cantano e basta che siano cacciati e per lungo tempo. È già un sollievo che Alessandro Morelli, ex prodigio delle castronate dai microfoni di Radio Padania e per questo promosso in politica, non abbia chiesto la pena di morte o la castrazione. Il caso è disperato e qui non c’è competenza per affrontarlo.

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