E se fosse stato Draghi a sfiduciare una classe politica imbarazzante, dicendo la verità e parlando chiaro?


Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
Lo ha scritto su Facebook Mario Raffaelli, politico d’altra epoca che s’è rimesso in Azione in nome di un Calenda-rio dell’impegno che rifiuta i limiti dell’anagrafe. Raffaelli ha reso pubblico un concetto che al sottoscritto (e spero ad altri) intrigava in privato nel seguire Draghi in Senato. Ben prima che si consumasse quel draghicidio per nulla impronosticabile. Chi ha sfiduciato e chi è stato sfiduciato? Questa la domanda. I quaquaraqua hanno davvero tolto la fiducia a Draghi? E se invece fosse stato Draghi togliere la fiducia (anche a nome mio, e dunque mi inchino) ad una certa (non tutta ma troppa) classe politica? Una classe politica (il nulla trasversale) per la quale oggi anche Franco Battiato sventolerebbe in angosciato silenzio la sua celeberrima bandiera bianca.
Sì, l’autore di “Povera Patria” non troverebbe più parole (né insulti) di immortale attualità. Quel suo “gente infame, che non sa cos’è il dolore” oggi sarebbe nulla più che un buffetto per Conte, per Salvini, per Berlusconi e per quelle decine e decine di personaggi “deputati” ad un goffo scimmiottamento dei loro capibastone. Dunque, chi ha sfiduciato chi? Nessun dubbio e chissenefrega delle cronache che la raccontano al contrario. È Draghi ad aver “posto la sfiducia” (la sua, la mia, spero anche la vostra). Ha sfiduciato chi meritava (ma non solo da oggi) insulti ben più pesanti di quelle che un Presidente del Consiglio alieno ai magheggi di bassa Lega ha menato in Senato.
Nel ramo del Parlamento dove l’equazione età-saggezza è una presa per i fondelli in tanti sono rimasti esterrefatti. Non erano tuttavia meravigliati (perfino offesi) dalle parole di Draghi. Parole che non hanno né capito né voluto capire. Erano drammaticamente disorientati nel subire frasi concisamente limpide. Erano in crisi dura – astinenza da demagogia – nel trovarsi di fronte a ragionamenti non più invischiati nella melassa, nei bizantinismi e nelle ipocrisie. Spiazzati dall’imprevedibilità. Come se una squadra di calcio rodata e strapagata quando trova l’outsider capace di metterla in crisi reagisce pestando in modo sbracato e dilettante. Il dire poco se detto in modo chiaro, netto, inequivocabile, pungente fino ad una ferocia da applauso, è un attentato. È una bomba piazzata in un tempio (il Parlamento appunto) dove una religione sempre più ignorante ed elitaria ha strappato dal suo vangelo ogni pagine scritta con l’inchiostro dell’esplicito e della semplicità.
Si fa peccato (mortale) se per una volta “non si gira attorno” ai problemi ma, al contrario, li si aggredisce sbattendoli in faccia ai sapientoni del disastro nazionale. Si è dei pericolosi terroristi incravattati quando si caricano le proprie armi (verbali) con la normalità, con l’attitudine rara al farsi comprendere, con il rifiuto di mediare al ribasso con chi crede che si possa lasciare sempre fuori dalla porta della propria bottega elettorale ogni complessità. Draghi ha sfiduciato i lanzichenecchi del tanto peggio tanto meglio. Gente, gentaglia, che fa così da sempre. Che da sempre bluffa e sbuffa. Che da sempre propone ricette che sa di non poter cucinare. Se avesse voluto farli credere bulli vincenti, Draghi li avrebbe facilmente sedotti. Avrebbe potuto rispondere a Conte, Salvini e Berlusconi con una variante del “Whatever it takes” adattata ad ognuna delle loro fisime. Richieste dal rialzo elettorale nel ribasso di ogni compatibilità. Richieste utili a raggranellare voti devastando l’economia, la tenuta sociale, la cultura dei diritti.
Ma il “Whatever it takes” di Draghi (quello che salvò l’euro e salvò l’Italia) ha senso solo in un contesto di coerenza. Un contesto che non prevede ammiccamenti, sconti, giravolte, illusionismi. Quello della serietà e della coerenza è un contesto sconosciuto a Conte, a Salvini, a Berlusconi e ai pappagalli senza colore (grigi e tristi) che ne replicano gracchianti gli spensierati pensieri in ogni dove televisivo. La coerenza esclude il mercanteggiamento. Esclude ogni tipo di adulazione, compresa quella finta e strumentale. La coerenza impone “il pane al pane”. La Povera Patria potrà salvarsi solo imparando a praticare l’onestà intellettuale (assieme all’onestà materiale). In caso contrario economia, società, equità, ambiente e tutto il resto che può far progresso diventano regresso. Diventano vuoto di slogan o barzellette di cui, quasi centenni, si scorda inevitabilmente la trama.
No, non si possono più raccontare le balle che per decenni hanno confuso visi e deretani nel caravanserraglio televisivo o cartastampato. I miracoli non sono dietro alcun angolo e dietro agli angoli c’è semmai dell’altro buio pesto. Ecco perché Draghi ha sfiduciato gli inaffidabili – (è bastato dire verità inoppugnabili sulle parole d’ordine che campano di disordine e truffe) – ben prima che gli inaffidabili facessero i pusillanimi che lo detronicizzassero senza nemmeno il fegato di votargli contro. Draghi ci ha messo del suo: rara efficacia di una lucida pacatezza nello sferzare. Draghi ci ha messo anche del nostro nel farsi ventriloquo di una buona parte di nazione. Quella nazione che invoca un sussulto di onestà dentro un emiciclo dove i furbastri sembrano essere maggioranza ad ogni latitudine politica e dove la rettitudine non ha meno colpe visto l’immemore immobilismo.
Ora, adesso, ecco il delirio di un’elezione in tempo d’angoscia: guerra, calor bianco e Italia in secca, portafoglio alla canna del gas, virus che non vira, eccetera. Se davvero c’è un’Italia che tifando Draghi (anche senza trasporto, anche con riverenza o invidia) voleva darsi un’occasione di normalità sarà il caso che quell’Italia perseveri. I circensi che hanno vinto in Senato stanno già preparando un governo assieme alla Lady di latta che urla all’estero le bestemmie (gay, famiglia, immigrati) che non può permettersi in Italia. Tra i circensi c’è anche il sotto-comico che sbatte le porte per allenarsi ad una missione autolesionista ormai quasi del tutto conclusa. Andrà per Conte proprio. Andrà a sbattere per Conte proprio.
L’Italia degli incroci imprevedibili - (sindaci d’ogni parrocchia, categorie di ogni interesse, cittadini di ogni speranza) – dirà la sua? E la dirà ricacciando l’ego e la boria nelle gole di chi festeggia anzitempo? Potrebbe anche succedere. Per farlo succedere - (se fosse, non goduria ma sollievo) – c’è l’urgenza di osare. Ma osare, oggi più che mai, è cambiare. E cambiare vuol dire abbandonare di corsa i riti, lasciare in garage l’usato sicuro che prima o poi grippa per rischiare motori meno rodati ma più ruggenti. Osare significa selezionare i politici non in base allo stupido criterio dell’anagrafe (troppi i giovani antichi prima ancora di nascere) ma in base a credibilità conquistata nel lavoro, nell’impegno sociale, nello spendersi anche senza stipendio o poltrona. Osare significa stupire nel comunicare senza salire in cattedra, nell’ascoltare anche l’imbarazzante senza dare l’impressione di una distanza infastidita.
Due mesi sono un niente? Due mesi saranno la scusa per non cambiare niente? Allora, poi, non ci si lamenti e non ci si pianga addosso. Ad esempio se è vero che il Trentino di centrosinistra sarebbe orientato a candidare per le politiche alcuni illustri-conosciuti di palazzo (consiglieri provinciali dal tris moralmente complicato) siamo masochisticamente alle solite. Il solito, verticistico, modo di perdere con la soddisfazione malsana di chi si vanta di far quadrare gli equilibri di parrocchia. Se andrà così votare sarà l’ennesimo esercizio di inutilità, un obbligo senza passione, un dovere frustrato. Ci può essere più masochismo?