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Assalto al Campidoglio, da Jack Angeli ad Attila ''flagello di Dio'' il passo è breve tra maratone televisive e autolesionismo mediatico

“La rivoluzione dei Village People" – ha scritto il sapido Biancardi in un post che merita un “chapeau”. Ci mancava solo che gli insorti cantassero maldestri come quando Trump ciondola ridicolmente al suono di “Ymca”. Mi servo delle immagini “parlanti” – spiazzanti - di un assalto democraticamente indegno ma demenzialmente degno. Cioè “degno” di una inconsapevole sceneggiatura da Oscar
DAL BLOG
Di Carmine Ragozzino - 08 gennaio 2021

Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino

Me lo dico da solo: “E' ora di farsi vedere da uno bravo”. Nell’attesa di qualche buon indirizzo, provo a spiegarmi. Ho fatto notte davanti all’infinito replay sull’assalto "trumpiano" al Campidoglio americano.

 

Ho ascoltato tutti. E di tutto. La compagnia di giro giornalistica che da mane e sera invade ripetendosi ogni palinsesto pubblico e privato più ha commentato il commentabile. E anche l’incommentabile. Il momento era topico. L’ora storica chiudeva l’era stolida del peggior cartone animato in carne, ossa e mossette. Così animato da pessimi sentimenti, quel cartonato vivente, che se lo fai vedere ai bambini ti diventano assassini.

 

In un mondo normale – (quel mondo che se c’è in qualche galassia chiedo la cittadinanza) – il Pel di Carota che ha fatto il presidente di bianca non avrebbe avuto in dotazione una Casa. Al massimo lo avrebbero messo di fronte ad una bianca parete. Da clinica psichiatrica. Ma il mondo normale non esiste che nelle illusioni di qualche alieno. E la realtà regredisce ogni giorno di più: inesorabile.

 

Nel mondo che ci tocca, ci è capitato anche Donald, anzi “the Donald” per via dell’unicità neuronale. Un’unicità che avrebbe probabilmente convinto Mel Brooks a cambiare una delle scene memorabili di “Frankenstein Junior”. Per capirsi, quando ad Igor viene chiesto di rubare un “grande” cervello per Frankestein, lui sceglie “Ab norme” tra quelli in formalina. Se il film l’avessero girato oggi avrebbe di sicuro trovato una scritta aggiuntiva: “Donald, Ab norme”.

 

Se fossi un tipo sano nella forzata quanto inutile insonnia da zapping tra i canali avrei dovuto preferire la melatonina alla maratonina dei troppi Mentana. Ma io sano non devo essere. Masochista, invece, devo esserlo di certo se mi sono condannato a cercare vanamente di capire perché la Maglie continua a non centrare il punto nelle tesi di destra. Devo essere autolesionista nel sopportare Giannini che insiste nel dire “io l’avevo detto” beandosi di sé medesimo. Devo essere irrecuperabile se perdo più di un secondo a raccapezzarmi negli sragionamenti di Capezzone.

 

Non ne ho - purtroppo - mai abbastanza. Da tossico della parola non riesco a non farmi del male. Mi “faccio” di talk show e di “speciali”, giurando a chi mi vuol bene che “stavolta è l’ultima”. Per poi ricascarci. Mea culpa, di me che abbocco all’idea che l’informazione possa fare formazione.

 

Così è stato anche nella notte dell’assalto: incredibile, inquietante ma in alcuni momenti drammaticamente comico. Mentre tutti pontificavano sul presente e sul futuro del dar di matto di un presidente che in testa ha un colapasta di stoppa dal colore cangiante, io azzardavo un’ascetica astrazione. Mi servo delle immagini “parlanti” – spiazzanti - di un assalto democraticamente indegno ma demenzialmente degno. Cioè “degno” di una inconsapevole sceneggiatura da Oscar.

 

Il buon Mao (buon si fa per dire perché ne ha fatte di ogni), scrisse che la rivoluzione non è un pranzo di gala. Beh, l’abborracciata seppur pericolosa insurrezione di Washington (su morti e feriti non si scherza, lo so), mi è parsa una cena di massa tra bulimici della visibilità. Costi quel che costi, anche a costo della pellaccia.

 

Certo, non mancavano nella bolgia i nostalgici di quel nazismo che negli Usa non è purtroppo quello che fu reso innocuo solonel simpatico e geniale sputtanamento che ne fecero i Blues Brothers. A John Landis bastò un “ti ho sempre amato” urlato in punto di morte dal camerata al gerarca per ridicolizzare ogni teoria omofoba e razzista come quelle che Trump ha sdoganato e che i suoi seguaci hanno attualizzato caricando, (ahi noi) le armi.

 

Ma come non sprofondare in un incubo nel constatare che dentro quel Parlamento violato la gran parte degli assaltatori era “armata” di cellulare? “Sparava” un selfie dietro l’altro. Selfies singoli e collettivi, sotto un quadro oppure a fianco di una statua. Autoritratti da scrivania eccellente, inquadrando un ghigno orgoglioso e gli stivali da cow-boy. Egocentrismo peloso, anzi Pelosi: sulla scrivania di Nancy.

 

Come non chiedersi quale baco cerebrale porta ad “insorgere” con uno zainetto in spalla che probabilmente non contiene “bombe” ma magliette della salute e mutande di ricambio dopo un viaggio dalla periferia campagnola alla capitale? Come non arrovellarsi sul tema “si può mai fare” un Colpo di Stato da obesi che vomitano il surplus di birra nella fatica di correre a destra (a manca no)?

 

E ancora, si può essere capipopolo solo perché si portano in testa le corna e si mostra la presunta virilità di un petto tatuato di vaneggi negazionisti e suprematisti? Ho avuto un bel da fare a prenderli sul serio quei trumpisti che gironzolavano a Capitol Hill come un tragicomico Gruppo Vacanze Piemonte in salsa americana. Invece – chiariamoci subito – vanno presi sul serio.

 

Più le immagini replicavano l’italo americano (mai che fosse un ungherese) con le corna e la pelliccia di villi più mi si stampava in testa il divertente ricordo di Abatantuono quando faceva “Attila, flagello dio Dio” nel lontano 1982, che lo lanciò come eroe indiscusso dello slang meridional-lombardo. “La rivoluzione dei Village People – ha scritto il sapido Biancardi in un post che merita un “chapeau”. Ci mancava solo che gli insorti cantassero maldestri come quando Trump ciondola ridicolmente al suono di “Ymca”.

 

È per tutto questo – e altro su cui mi taccio per evitare il Tso (trattamento sanitario obbligatorio) che nell’assistere all’insurrezione americana più che l’angoscia (che pure c’era) mi ha colto un disarmo totale. Il disarmo per come e per quanto esseri umani con famiglie, storie, pensieri non condivisibili ma tuttavia reali nel malessere si facciano ipnotizzare dal re dei cialtroni. Un disarmo nel constatare quanto sia facile farsi trascinare dentro un labirinto. Il labirinto di un protagonismo “costi quel che costi”, compreso il rischio della pelle.

 

Sì, sono in disarmo. Disarmato di fronte all’assenza di sostanza e alla presenza debordante di forma”. Sono in disarmo per il mondo che c’è già, avvelenato da cinguettii (i tweet) che Giuda in confronto fu un simbolo di verità. Sono in disarmo per il mondo che verrà se si continueranno a mandare i neuroni all’ammasso inseguendo le chimere di chi – negli Usa come in Italia – sui neuroni altrui costruisce imperi (del male). Ma ci lascia liberi di farci un selfie, un autoritratto, sull’orlo di un burrone. Felici di precipitare.

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