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La bimba che rubava le mele d'oro per dare il pane al fratellino

Entro nel supermercato, comincio a dare un'occhiata ed eccole, in mezzo al resto, le mele d'oro. Come in un incanto la mia mente comincia a viaggiare nel tempo. Siamo nel 1943, a Pieve di Teco. È un pittoresco borgo di origini medievali, in provincia di Imperia
DAL BLOG
Di Barbara Mastronardi - 21 ottobre 2020

 Ribelle quanto basta amo gli animali e in particolare i gatti. Inseguo sempre i miei sogni come quello di scrivere e da sempre racconto storie spesso e volentieri di mici e micie.

È sabato. Sono molto leopardiana in questo: "Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme e di gioia". A dire la verità, lo scenario del centro città di Trento è quasi surreale, per non dire del tutto alieno alla realtà. Le persone girano con la mascherina per difendersi dal virus maledetto che serpeggia, si incontrano solo gli sguardi, si respira un'aria davvero strana. È comunque il "mio giorno" nonostante tutto, e questo comunque mi solleva. Gironzolo un po' senza meta, mentre un lieve raggio di sole riscalda un po' l'aria frizzantina. È ora ormai di fare la spesa. Come donna di casa, a dire la verità, sono decisamente una frana, ma fare questo mi diverte. Entro nel supermercato, comincio a dare un'occhiata ed eccole, in mezzo al resto, le mele d'oro.

 

Come in un incanto la mia mente comincia a viaggiare nel tempo. Siamo nel 1943, a Pieve di Teco. È un pittoresco borgo di origini medievali, in provincia di Imperia. Pieve di Teco ha un nome che richiama in parte la sua storia e si riferisce alla presenza di un’antica chiesa, quella dedicata a Santa Maria della Ripa. Teco si riferisce al termine latino “tectum”, che significa “casa”, quindi riferito al centro abitato fin da tempi molto antichi. Il paese è invaso dalle truppe tedesche e la famiglia di cui vi parlo vive in una piccola villetta. Proviene da Imperia e si è rifugiata a Pieve per paura dei bombardamenti. Ci sono mamma, papà, una bimba bionda di sette anni di nome Andreina, un bimbo di cinque di nome Ettore, vivace come Gianburrasca, e l'ultimo arrivato dagli occhi cerulei e i riccioli color del grano, Marino.

 

La casetta è occupata da un ufficiale tedesco di nome Altenhofen. Il suo sguardo è arcigno ed il suo compito è di scovare e uccidere più partigiani possibile. Ha il vezzo di lasciare ogni sera davanti alla sua porta la gavetta con i resti del riso, latte e cannella, il suo cibo preferito, in modo da ingolosire i bambini. La loro mamma non vuole che tocchino nulla, e loro soffrono la fame in silenzio. La loro vicina di casa, la signora Gola, è una donna dura e algida che continua a rimproverare i fratellini per il chiasso che fanno in cortile, brontola quando il piccolo piange e li costringe a sentire le notizie di guerra alla radio piano piano, attaccati al microfono perché le cuffie costano troppo e loro non possono permettersele. È molto molto difficile andare avanti. Il papà, podestà del paese, viene fatto prigioniero dai tedeschi per rappresaglia e la situazione diventa ancora più difficile. Il cibo scarseggia, e la famigliola si arrangia in qualche modo con quello che riesce a ricavare dall'orto, patate, carote e qualche cavolo.

 

Il più piccolo di casa viene alimentato a latte di capra, perché la sua mamma ha perso il latte per lo scarso nutrimento. Diventa sempre più magro e scarno. I suoi occhi trasparenti si perdono nel visino minuto, e la sorellina comincia a preoccuparsi. E decide di intervenire. Comincia giorno dopo giorno a rinunciare alla fetta di pane caldo fatto in casa dalla nonna Marianna, che viveva nella casa avita poco fuori dal paese con nonno Andrea. Lei ha il compito di dare da mangiare al fratellino e di nascosto inzuppa il pane nel suo latte e glielo dà, e il bimbo piano piano comincia a crescere e si fa più robusto. E lei? La fame diventa sempre più insistente e la tormenta, ma rimane decisa a continuare la sua rinuncia. Ed un giorno decise di andare a curiosare, e si avvicina al grande albero nel giardino fra le due case.

 

La sua mamma è distrutta emotivamente, e poco avvezza alle chiacchiere. Le dice solo che i frutti che lei chiama appunto le "mele d'oro" si chiamano kaki, con due k. La bimba ne prende uno di nascosto, lo lava nella fontanella, e lo assaggia. Squisito. Dolce, un nettare degli dei. E quell'anno, in quel grigio autunno che portava all'inverno, la bimba bionda si mantiene in forze per coccolare e portare in giro il suo fratellino nutrendosi, sempre, a volte di nascosto, con le "mele d'oro". Alla mamma che, quando la sorprende, la rimprovera di mangiarli, dice solo di essere golosa, ma mai le rivela la verità. La signora Gola la sorprende, un giorno, mentre sta masticando e le chiede in malo modo cosa stia mangiando. La bimba le risponde che è una cosa caduta, e questa persona, cattiva fino in fondo, le dice che fa bene a mangiare le cose cadute per terra (similes con similibus, i simili si accompagnano con i loro simili). Lei ingoia le lacrime e va avanti.

 

Mi pare quasi di sentire i suoi singulti. D'un tratto ritorno in me e mi accorgo di essermi persa nei miei pensieri, davanti al banco della frutta. La nostalgia di Pieve, che io ben conosco, mi prende il cuore. Raccolgo un vassoio di mele d'oro e decido di comprarlo e portarlo alla persona a cui voglio tutto il bene del mondo, che è golosissima di questi frutti. La mia mamma.

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