Gardin e la satira del ''cambiamento'', quando il femminicidio viene paragonato all'uccisione dei tacchini


Mi chiamo Stefano Bannò ma alcuni mi conoscono come Anansi. Sono un musicista e mi piace scrivere. Ho lavorato con molti artisti italiani e sono sopravvissuto a un Festival di Sanremo...
Dai tempi di Aristofane la satira prende di mira l’ordine costituito con i suoi atteggiamenti, i suoi costumi e la sua morale, sia esso conservatore o progressista, di centro, destra o sinistra. La storia annovera chiaramente diverse eccezioni. Mi vengono in mente le vignette satiriche antisemite negli anni ’30 in Germania e in Italia o le stereotipizzazioni razziali dei neri americani durante il periodo della segregazione negli Stati Uniti. Ma scagliarsi contro una minoranza bistrattata, emarginata, segregata e oppressa è satira?
Lungi da me il voler mettere in discussione la libertà di espressione e il diritto di poter scherzare su ebrei, neri, terroni, zingari e chi più ne ha più ne metta. Ricordo, a tale proposito, uno spettacolo di Moni Ovadia di qualche anno fa. L’attore – peraltro di origini ebraiche – si chiedeva perché il suo popolo avesse il naso grosso e rispondeva al quesito con due battute. La prima: perché un naso grosso permette di poter immagazzinare una maggiore quantità di aria che la natura offre in maniera del tutto gratuita. La seconda: perché il popolo ebraico è stato menato per il naso da Mosè che l’ha scarrozzato in giro per 40 anni in un deserto attraversabile agevolmente nell’arco di una settimana. La prima è una battuta brutta ed antisemita, la seconda no.
Domenica scorsa, Lucio Gardin ha dedicato la sua rubrica “Gardring” su “L’Adige” allo stato di agitazione permanente contro Fugatti e le politiche della Lega indetto dal collettivo femminista “Non una di meno”. Il comico trentino non è nuovo ad esternazioni e (brutte) battute – raramente profonde e argute – contro minoranze e gruppi sociali che non hanno voce.
Ora, per il bene del presente ragionamento, in una sorta di reductio ad absurdum, possiamo considerare il movimento femminista come una minoranza, su cui mi sembra legittimo fare ironia, evidenziandone le contraddizioni o amplificandole per mezzo di iperboli e – nel caso di Gardin – di (discutibili) allusioni ai genitali (per esempio alle femministe che vorrebbero scendere in piazza lui consiglia di farlo ogni 28 giorni per scaricare il nervosismo alludendo al ciclo mestruale e gli uomini li definisce, simpaticamente (?), donatori di sperma) di entrambi i sessi. Fino a qui, tutto – più o meno – bene.
A un certo punto, però, Gardin paragona il “femminicidio” al macello di bestiame, chiedendosi perché in occasione del Thanksgiving non si parli di “tacchinicidio” o per Pasqua non si parli di “agnellicidio” e spingendosi addirittura a coniare dei neologismi senza senso, come “trattoricidio” (strage di o da trattori?) e “divorzicidio” (uccisione di o da divorzi?). È evidente che a questo punto il bersaglio degli strali del comico trentino non è più una minoranza, ma grossomodo la metà della popolazione terrestre.
Non ha offeso un collettivo femminista, ma l’intera comunità femminile. La donna. Le donne. E con loro tutti noi, uomini, ebrei, neri, terroni, zingari, che mai ci sogneremmo di arrivare a un tale livello. Non del tutto soddisfatto, Gardin conclude la sua rubrica con una frecciata del tutto immotivata e fuori luogo all’immigrazione (vd. alla voce Analfabetismo funzionale). Oggi il direttore de “L’Adige” Pierangelo Giovanetti si è scusato pubblicamente, rispondendo a due belle lettere della Prof.ssa Giovanna Covi e di Daniele Marchesi, mentre Gardin resta ancora provocatoriamente sulle sue posizioni, evocando lo spettro della censura.
Sebbene abbia offeso direttamente circa 3,6 miliardi di esseri umani, basterebbero delle scuse.