Ora o mai più. Come l'informazione deve ripensare la sua narrazione del cambiamento climatico
In vista della "climate week", proponiamo una riflessione apparsa su una rivista austriaca in cui si analizzano i sette errori più gravi con cui il mondo dell'informazione ha fallito nella comunicazione del cambiamento climatico. Dei peccati da redimere, affinché la società possa fare pressioni sulla politica per salvare il pianeta

TRENTO. Mentre Cisl e Uil proclamano di preferire altre forme di protesta sensibilizzazione sul tema climatico, defilandosi dallo sciopero indetto sulla scia del Global Climate Strike di venerdì 27 settembre 2019 – e che vede aderire anche i lavoratori della conoscenza e dell'istruzione di Flc Cgil (qui l'articolo), i giovani trentini di Fridays for Future hanno dato vita ad un'installazione sulla “fast fashion” in vista del grande evento di settimana prossima.
Un'iniziativa, visitabile nel capoluogo in via Oss-Mazzurana, volta a informare riguardo al mondo della moda, in particolare a quelle aziende che in nome del profitto economico propongono capi d'abbigliamento a prezzi popolari costringendo i lavoratori dei Paesi di produzione, dall'India alla Cina, dalla Cambogia al Bangladesh, a ritmi di lavoro insostenibili e a condizioni lavorative disumane.
Un settore che ha, oltre che costi sociali e umani, anche terribili ricadute ambientali – il settore tessile è il secondo più inquinante al mondo dopo quello petrolifero.
La “climate week” pare dunque incanalata sui binari giusti, proponendo spunti di riflessione alla cittadinanza e alla politica affinché si metta al vertice dell'agenda la questione climatica, in attesa che anche la scuola si accodi a questo treno. Ma anche per il settore dell'informazione sarebbe bene cominciare a rivedere le proprie strategie comunicative.
In un articolo sulla rivista austriaca Westpennest, Daniel Pelletier e Maximilian Probst analizzano come il mondo dell'informazione possa essere considerato uno dei principali artefici del fallimento del contrasto al riscaldamento globale, in virtù della scarsa capacità di raccontarlo e di far pressione sul mondo della politica. Al fallimento di questa, dunque, corrisponde quello dei mezzi d'informazione, disorientati dalla crisi strutturale che ha travolto il mondo della comunicazione a partire dagli anni '80. Un peccato che metterebbe in pericolo non solo l'informazione, ma la democrazia stessa.
A riguardo gli autori individuano 7 peccati capitali. In primis, mentre il mondo scientifico, o comunque la sua stragrande maggioranza, ha da tempo indicato nell'attività umana il responsabile del riscaldamento globale, il mondo dell'informazione non solo non ha dimostrato scarso senso critico nell'analizzare le teorie, ma ha ripetuto e ampliato l'impressione che la questione fosse ancora limitata al piano del dibattito tra scienziati. Se in un dibattito sul clima, per esempio, si invitano un climatologo e uno scettico in nome dell'equidistanza, si crea una grave discrepanza.
Com'è infatti possibile mettere sullo stesso piano uno scienziato che sostiene che sia l'attività umana la responsabile dei cambiamenti climatici e che rappresenta il 97% del mondo scientifico e uno che, negandolo, ne rappresenta solo il 3%? Non si finisce così per squalificare la Scienza, base delle nostre conoscenze, in nome di logiche giornalistiche secondo cui il conflitto funziona più del consenso?
In secondo luogo, al giornalismo si imputa di aver sempre relegato le questioni climatiche al solo ambito delle scienze naturali. Un ambito marginale, privato delle relazioni che le legano alle implicazioni sociali, culturali, geostrategiche, politiche, economiche, storiche e così via che il riscaldamento globale ha sulla vita dell'uomo. Si pensi al coacervo di ragioni che spinge milioni di persone a migrare, tra cui di certo svolgono un ruolo determinante pure gli aspetti ambientali, come la desertificazione e la mancanza di risorse.
Terzo peccato è etichettare il tema climatico come politico, accostandolo a forze politiche precise, generalmente alla “sinistra” o ai verdi. Il clima è un “tema totale”, che interessa tutti e coinvolge l'essenza stessa della democrazia.
Allo stesso modo, un quarto errore viene ricondotto alla tendenza di individualizzare il problema climatico, riconoscendo solo ai singoli e non alla società il compito di intervenire attraverso le proprie azioni quotidiane sul cambiamento climatico. Il fatto che tutti debbano fare uno sforzo per cambiare le proprie abitudini più inquinanti è indiscutibile. Sprecare meno acqua, usare i mezzi pubblici e meno l'auto, riciclare. Ma ciò non può prescindere dal riconoscimento alla società, alla politica, alla collettività del compito previo e decisivo di creare le condizioni in cui i singoli possano trarre vantaggio ed automaticamente adattarsi alle riduzioni di emissioni.
Chi deve agire sono innanzitutto le istituzioni. È sulle loro spalle, e a cascata poi su quelle degli individui, che si gioca il futuro della Terra.
Sulla scia di questo peccato, v'è poi quello per cui il giornalismo ha nascosto dietro le responsabilità e la colpevolizzazione degli individui i veri primi responsabili del cambiamento climatico, chi ne ha tratto vantaggio e profitto, chi impedisce che le misure di tutela ambientale vadano in porto.
Perdersi nei dettagli, perdendo il riferimento al contesto più generale, è poi il sesto errore commesso dai media. Finché si continua a non raccontare il cambiamento climatico nelle sue connessioni con tutti gli altri ambiti della vita sociale e politica il pubblico si annoierà e si stuferà. Ciò anche perché, si conclude, la crisi climatica è considerata tema di nicchia. È bene, per eliminare questo settimo ed ultimo peccato, cominciare a raccontare il cambiamento climatico come la più grande notizia di sempre.