Il professore universitario di fronte allo sciopero: un docente spiega perché aderisce
Lettera del professor Izzo di Giurisprudenza: "Il lettore non pensi nemmeno per un attimo che si tratta di una richiesta tesa a vedersi riconoscere emolumenti aggiuntivi alla retribuzione già prevista. È, invece, importante che tutti i professori universitari non abbiano paura di costruire un sentire comune di fronte al governo e più in generale alla politica tutta"

TRENTO. Sciopero sì, sciopero no. In questi giorni anche all'Università di Trento si discute molto sul fatto che diversi professori dell'Ateneo abbiano deciso di aderire allo sciopero degli esami (che è cominciato il 28 agosto e terminerà il 31 ottobre) prima di tutto per sbloccare classi e scatti stipendiali, bloccati nel quinquennio 2011-2015, a partire dal 1 gennaio 2015 e non dal 1 gennaio 2016, com’è attualmente. Per qualcuno si tratta di una richiesta di "privilegiati" per ottenere altri "privilegi", per qualcun'altro invece è un sacrosanto diritto da difendere e rilanciare.
Scritto di quali erano i 49 professori "trentini" del documento che annunciava lo sciopero a livello nazionale e scritto delle iniziative del rettore e dei rappresentanti degli studenti per evitare il più possibile disagi, mentre tra gli studenti c'è chi annuncia di "boicottare" (semplicemente studiando sui libri lasciando deserto il corso) le lezioni future dei professori che faranno saltare loro gli esami pubblichiamo la lettera del professore di Giurisprudenza Umberto Izzo che spiega i motivi che lo hanno portato ad aderire allo sciopero nazionale indetto dal Movimento per la Dignità della Docenza Universitaria.
Il professore universitario di fronte allo sciopero:
All’indomani dell’avvio dello sciopero nazionale per la dignità della docenza dei professori universitari alcuni colleghi hanno sentito il bisogno di dichiarare pubblicamente, sui social o sui media tradizionali, quali sono i motivi che li inducono a NON aderire alla protesta in atto.
Non sorprende ed è anzi salutare che fra i professori universitari esistano modi diversi di vedere le cose e che si contrappongano argomenti che esprimono visioni del mondo non formattate in un pensiero unico. Poco appropriato appare, però, introdurre queste ragioni parlando di “penalizzazione” degli studenti. Così come evocare parole come “danneggiare”, "arrecare", "colpire", "scaricare", "infliggere" e altri termini alludenti alla volontà di produrre un "nocumento" al corpo studentesco.
Il “disagio” che invece questo sciopero comporterà agli studenti, con tutte le accortezze attentamente apposte dalla Commissione di garanzia sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, che ne ha dichiarato la piena legittimità, resta un disagio, un ragionevole spostamento di data nell’agenda, 15 giorni in più per preparare anche meglio l'esame che si sta studiando. E il disagio o il fastidio - lo sappiamo - non è risarcibile. E allora dove sta la sostanza di queste posizioni? Qual è il reale vulnus che un professore che svolge queste valutazioni starebbe responsabilmente evitando ai suoi amati studenti? Lo sciopero in atto è, nei fatti, uno sciopero bianco con una trattenuta stipendiale, che ha però un elevato valore simbolico.
Anche oltre la sacrosanta questione degli scatti. Il lettore non pensi nemmeno per un attimo che si tratta di una richiesta tesa a vedersi riconoscere emolumenti aggiuntivi alla retribuzione già prevista, potendo capire meglio qui la vera storia che ha reso necessaria l’indizione dello sciopero. È, invece, importante che tutti i professori universitari non abbiano paura di costruire (o di riscoprire di avere) un sentire comune di fronte al governo e più in generale alla politica tutta. Sia quelli ormai vicini alla pensione, i quali nel corso della propria lunga carriera hanno ormai visto crescere la propria retribuzione fino a livelli dignitosi, sia quelli più giovani, su cui l’ingiustificato azzeramento degli scatti è destinato a pesare in modo assai rilevante fino alla lontana pensione, e anche dopo di essa.
Come meglio non avrebbe potuto dire il collega Giancarlo Fabrizi della Sapienza, intervistato qualche giorno fa da La Stampa:
"LA QUESTIONE RETRIBUTIVA È UN ASPETTO PER FAR CAPIRE AL GOVERNO E AL PARLAMENTO CHE I PROFESSORI UNIVERSITARI NON POSSONO ESSERE CONSIDERATI UNA CATEGORIA IRRILEVANTE ALL'INTERNO DI UNA SOCIETÀ CHE VOGLIA PENSARE AL PROPRIO SVILUPPO".
Il successo (o il non fallimento) di questo sciopero è la base per coltivare la speranza che il professore universitario italiano abbandoni il timore di rivendicare la sua dignità professionale e l'importanza del suo ruolo nella società italiana. E torni a essere protagonista delle scelte di sistema che vengono operate sull’Università, facendo sentire che alla dignità del suo ruolo ci tiene.
Abbiamo tutti - e ripeto tutti - occasione per scoprirci - e non per caso senza la mediazione sindacale - uniti di fronte allo stesso interlocutore che è responsabile dei tanti misfatti che ROARS, alla cui redazione mi onoro di contribuire, non si stanca di raccontare ogni giorno. Solo così, solo devolvendo una giornata di retribuzione per dimostrare attivamente di ripudiare la postura distratta o dormiente che troppi di noi hanno tenuto di fronte alla vera e propria “Primavera silenziosa” (per citare Rachel Carson) che in questi anni si è compiuta ai danni dell’Università italiana, possiamo continuare a dare un senso al nostro impegno.
Il valore simbolico di questo sciopero è almeno pari all’eco mediatica che la vicenda – a dispetto di tante previsioni della prima ora rivelatesi errate – sta avendo nella società italiana. Ed è un valore che non si può vanificare richiamando uno qualsiasi degli argomenti che sul piano formale sembrano esclusi da questa protesta. Si allude spesso ai precari, che è quanto battersi a tutti i livelli affinché nella prossima legge di stabilità, invece di tentare di reintrodurre le ormai celebri “Cattedre Natta”, destinate a un manipolo di superpagati professori eccellenti nominati direttamente dalla Presidenza del Consiglio, siano immediatamente destinate risorse per alleviare questo gigantesco problema costruito a tavolino dagli alfieri della legge Gelmini a “nocumento” (vero, stavolta) dei giovani studiosi.
Si tratta, però, di una priorità per la quale solo una categoria di professori unita nel nome della sua dignità professionale può tentare di battersi con credibilità nel corso di questo autunno. Ma il “ben altro”, al punto in cui siamo, davanti a sé non ha che il nulla. Un nulla al cospetto del quale chi fra noi vuol far sentire la sua voce al MIUR, al governo e a tutta la classe politica, chi condivide le ragioni della protesta, ma poi si scopre incapace di dare un segnale reale a costoro, continuerà – temo - a versare lacrime nella pioggia.