Professioni sanitarie, aumentano i posti disponibili nelle università ma gli iscritti diminuiscono. Deflorian: "Calo di interesse. Cerchiamo nuove vie per attirare i giovani"
I dati nazionali mostrano un calo delle domande di ammissione ai corsi universitari per le professioni sanitarie, e Trento non fa eccezione. Il rettore Flavio Deflorian: "Un ruolo chiave lo gioca un'immagine sociale di queste professioni tutt'altro che brillante: occorre sensibilizzare e trovare nuove vie per essere attrattivi per i giovani studenti"

TRENTO. La carenza di interesse dei giovani per le professioni sanitarie è un fenomeno nazionale, quindi non sorprende che il “ciclone" colpisca anche Trento: un trend che preoccupa e che crea situazioni di sempre maggior difficoltà non solo nelle strutture sanitarie e negli ospedali delle nostre città, ma che ormai sembra travolgere anche il mondo universitario.
Secondo gli ultimi dati, in Italia nonostante un aumento dei posti disponibili per i corsi di laurea magistrale (tra le tante ci sono fisioterapia, assistenza sanitaria, tecniche di radiologia) si è registrato un drastico calo delle domande di ammissione del 9,7%.
Sembra un controsenso: servono sempre più medici e sempre più professionisti sanitari, eppure ce ne sono sempre di meno.
E purtroppo, come detto, Trento non è fuori da questa spirale negativa: anzi, al “conto” occorre aggiungere i pesanti investimenti degli ultimi anni per dotare l’Università di un polo delle professioni sanitarie, anche questo colpito piuttosto duramente dalla flessione di iscrizioni per il 2024-25.
Una situazione che solleva nuvole nere sull’orizzonte futuro del settore sanitario: il rischio, peraltro già in atto, è di una progressiva carenza di personale qualificato, con gravi conseguenze per quantità e qualità dell'assistenza sanitaria.
“Vanno fatti però dei distinguo, altrimenti c’è il rischio di non capirsi”.
A dirlo, parlando con Il Dolomiti, è il rettore dell’Ateneo trentino Flavio Deflorian.
“Il trend riguarda in maniera differenziata i diversi livelli. Per l’accesso a medicina, non c’è un caso di mancanza di vocazione, o un calo sostanziale dei numeri. Che invece si registra nelle professioni cosiddette ‘paramediche’, che sono altrettanto necessarie e carenti, nel settore pubblico e pure in quello privato. Purtroppo oggi anche in Trentino, un po’ in ritardo rispetto al panorama nazionale, cominciamo a fare i conti con una flessione delle iscrizioni ai corsi e ai test di accesso: fino all’anno scorso coprivamo tutti i posti previsti, per infermieristica li avevamo anche aumentati. Ma la dinamica nazionale alla fine ci ha raggiunto, per dirla così. La formazione sanitaria paramedica è una facoltà che è presente in quasi tutte le province del Paese: quindi il bacino degli studenti che le frequentano è molto più locale rispetto ad altri indirizzi. E allora qui come altrove risentiamo del calo demografico e di un interesse in calando”.
Rettore, quali fattori rendono poco attrattive queste professioni e di conseguenza i loro percorsi universitari?
“Non dico niente di nuovo se affermo che in questa crisi di ‘vocazione’ entra in gioco una immagine sociale di queste professioni tutt’altro che brillante: un carico di lavoro spesso enorme, stipendi non entusiasmanti, prospettive di carriera non sempre attrattive; mettiamoci pure la crescente preoccupazione per la sicurezza negli ambienti ospedalieri, sempre più spesso teatro di episodi di violenza”.
Un caso diverso ma altrettanto attuale è quello invece delle specializzazione di medicina “post laurea”. Anche lì il sistema scricchiola?
“Ecco perché è una buona notizia aver avuto, come Università di Trento, l’accreditamento di tre specialità in anestesia e rianimazione, neurologia e radiodiagnostica. Con numeri di borse assegnate dal Ministero interessanti: vedremo quali saranno le risposte a questa nuova opportunità, chiaramente è il primo anno quindi valuteremo a tempo debito. Il problema qui è un altro: ci sono specializzazioni meno ambite di altre. Per tutta una serie di motivi, legittimi: un giovane studente di medicina si trova nella posizione di poter scegliere una delle tante specializzazioni, in un contesto in cui poi la richiesta di medici è alta e trasversale. Insomma, lavoro se ne trova in qualunque campo. La conseguenza è una distribuzione non omogenea delle specialità, e alcune come medicina di emergenza e di urgenza o anestesia, tanto per fare un esempio concreto, finiscono in fondo alla lista delle preferenze degli specializzandi e palesano una mancanza cronica di personale”.
E allora quali strumenti ha l’Ateneo trentino per attrarre studenti e futuri professionisti di questi settori?
“Cerchiamo di rendere le specialità e il nostro percorso di formazione interessante, stimolante e peculiare. Ad esempio in un campo normalmente poco attrattivo - in questo momento - come la medicina di emergenza e di urgenza, in Trentino abbiamo tra le nostre ‘carte’ gli interventi del soccorso alpino, magari in elisoccorso. Sono una nostra caratteristica particolare che può interessare un giovane medico”.
Oggi mancano medici?
“C'è un problema di carenze che è molto diverso tra sistema pubblico e privato. Non mancano medici in generale, mancano nel sistema pubblico italiano. È un problema complessivo di sistema, l’Università prova a fare la sua parte ma la questione non è Trento o l’Italia, perché questi problemi affliggono tutta Europa. Occorre rivalutare alcune funzioni, valorizzarle, investire di più sulla salute pubblica: se non abbiamo altre leve per riconoscere che quello in pronto soccorso è un lavoro più complicato rispetto ad altri reparti, allora va pagato di più. E magari alla fine si risparmia comunque perché non servono gettonisti”.
Insomma, occorre sensibilizzare e informare. Anche i giovanissimi.
“Noi facciamo attività di orientamento e mettiamo grande enfasi sulle professioni sanitarie: ma forse noi come Università arriviamo già tardi, perché un cambio di mentalità e di cultura va costruito in periodi scolastici precedenti agli ultimi due anni di superiori”.
Un cambio di cultura che passa attraverso una “rivoluzione” del sistema?
“Mi ripeto, è una questione anche di riconoscimento sociale: penso alla figura del medico di base, che nel giro di alcuni anni è passato da figura chiave, cruciale e rispettata, a una svalorizzazione del ruolo che spesso non lo rende nemmeno più un reale attore protagonista della sanità. Durante la pandemia dovremmo esserci resi conto di quanto sia fondamentale la medicina territoriale per non ingolfare i pronto soccorso e gli specialisti, eppure oggi siamo punto e a capo”.