Coronavirus, lo studio altoatesino: ''Le persone non sono in grado di valutare se sono state contagiate. Post malattia possono emergere conseguenze psichiche''
Hanno partecipato alla sezione psicologica dello studio 800 persone che hanno in questo modo fornito delle informazioni molto preziose sulla pandemia e sul suo impatto psicologico. Ecco cosa è emerso sino ad ora

TRENTO. ''Una prima valutazione degli aspetti psicologici mostra che le persone non sono in grado di valutare se siano state contagiate oppure no''. Questo uno dei concetti chiave dello studio effettuato congiuntamente dall’Istituto Altoatesino di Statistica Astat, dall’Accademia Europea Eurac, dall’Istituto di Medicina Generale, dal Servizio Psicologico del Comprensorio sanitario di Bressanone come pure dal Dipartimento Salute della Provincia di Bolzano. Hanno partecipato alla sezione psicologica dello studio 800 persone che hanno in questo modo fornito delle informazioni molto preziose sulla pandemia e sul suo impatto psicologico.
La bassa percezione del problema e soprattutto la convinzione di essere ''sani'' in un determinato momento nasce dal fatto che ''in larga parte, la capacità di giudizio umano si orienta sui tassi di probabilità'', afferma Roland Keim, direttore dello studio sugli aspetti psicologici. Da un lato, si spiega nello studio, ciò dipende dal fatto che circa il 30% degli infetti non mostra alcun sintomo e dall’altro che i sintomi stessi sono aspecifici e che le persone colpite non sono spesso in grado di attribuire correttamente tali sintomi all’infezione. Almeno tre quarti dei partecipanti di fatto positivi riteneva con assoluta o relativa sicurezza di non essere infetto.
La stessa percentuale si è osservata nel gruppo di partecipanti che era risultata negativa al test. Questo significa che le persone tendono a lasciarsi ingannare da un falso sentimento di sicurezza, correndo in questo modo il rischio di contagiare altre persone. Lo studio, quindi mostra che l'inconsapevolezza della propria contagiosità rappresenta, di fatto, la regola e non l'eccezione, ed è per questo che diventa fondamentale rispettare le prescrizioni sulla distanza e sulle mascherine, per evitare di portare in giro il virus senza nemmeno saperlo.
Lo studio altoatesino ha poi analizzato un ulteriore interessante lato della sfera emotiva legata al Covid quello che riguarda l'ansia. Si osserva una differenza statisticamente significativa in termini di ansia, depressione e stress generali fra soggetti risultati positivi e soggetti negativi: le persone con un risultato positivo erano significativamente più depresse, ansiose e stressate di quelle con risultato negativo. Questa differenza, piuttosto scontata, non è risultata riconducibile al sesso, all’età, al grado di informazione riguardo la malattia, ad una durata più lunga della malattia, alla perdita del lavoro, alla presenza di malattie croniche o alle misure di quarantena. Dal punto di vista della ricaduta psicologica, la gran parte dei soggetti sembra inoltre aver affrontato bene la quarantena. In termini di depressione, ansia, stress non si osservano differenze tra i soggetti sottoposti a quarantena e quelli che non lo sono stati.
Di fatto, nessun soggetto appartenente al campione risultato positivo era sottoposto ad un ricovero ospedaliero e la gran parte dei casi aveva un decorso lieve o addirittura asintomatico. ''In generale - spiegano dalla Azienda sanitaria - si potrebbe allora ipotizzare che questo incrementato disagio emotivo rappresenti una specifica conseguenza del Covid. In questa direzione, un nuovo studio irlandese ancora non pubblicato ha mostrato che oltre la metà dei pazienti di un ambulatorio dedicato al Covid-19 soffre di una persistente sindrome di affaticamento''.
Contrariamente a questa ipotesi, i partecipanti allo Studio condotto in Alto Adige che avevano avuto un decorso particolarmente lieve, non hanno riferito alcun peggioramento del loro stato fisico o psichico. Per contro, non si può escludere che un incrementato disagio emotivo aumenti la probabilità di contrarre il virus. Quest’ultimo aspetto è stato evidenziato con i virus che provocano il raffreddore comune ed il gruppo di ricerca che ha condotto questo studio non esclude che l’esistenza di questo tipo di legame sia dimostrabile anche nel coronavirus.
''Un legame del genere - proseguono dall'Azienda sanitaria - spiegherebbe perché in una stessa famiglia dove sia presente un caso, solo alcuni componenti si infettino e altri no, nonostante il fatto che tutti siano esposti sostanzialmente allo stesso livello di infezione. La causa di ciò va attribuita alla complessa interazione fra emozioni e sistema immunitario. Oltre allo studio citato più sopra, esistono altre prove che vanno nella stessa direzione: risultati di esperimenti su modelli animali, studi epidemiologici su diverse malattie croniche o studi sperimentali sulla guarigione delle ferite in situazioni di stress psicologico''. La questione se il disagio psichico incrementi la probabilità di contrarre l’infezione o al contrario, se esso sia la conseguenza di un’avvenuta infezione e quali siano i meccanismi biologici coinvolti, dovrebbe essere chiarita con ulteriori studi.
Lo studio altoatesino ha poi analizzato i dati statistici sui contagi raggiungendo dei risultati che confermano quanto già ipotizzato. Nelle persone colpite dall’infezione Covid-19 si è potuto osservare con una frequenza statistica significativamente più alta il fatto di vivere in una famiglia più ampia (χ2 p <0.03) o assieme ai propri genitori (χ2 p=0.03), di trascorrere più tempo libero fuori casa (χ2 p <0.05), di mantenere sul luogo di lavoro una distanza uguale o minore ad un metro dalle altre persone (χ2 p <0.01) e di avere una rete di contatti sociali più differenziata (t p<0.05).
Gioca invece un ruolo marginale il fatto di vivere in un condominio o in una casa singola o di appartenere ad una qualche associazione o comunità religiosa. Non si potevano osservare differenze significative tra soggetti positivi o negativi anche riguardo a ore lavorative trascorse al di fuori della propria abitazione, tipo di mezzi di trasporto utilizzati al lavoro o nel tempo libero, durata dei trasporti, contatto abituale con animali domestici, ansia specifica per il Covid-19 o presenza di bambini nella famiglia.
In generale, questi risultati vanno considerati con cautela, dato che le correlazioni statistiche non possono ancora dimostrare legami causali. Ad esempio, non si può escludere che il disagio psicologico venga causato da altre variabili al momento non osservate ma sistematicamente legate al Covid-19. Benché riguardo a tale disagio psicologico si osservino delle differenze statisticamente significative tra persone risultate positive al Covid-19 e persone negative, in ogni caso esso è generalmente lieve.
Proprio per questo motivo sarebbe estremamente importante indagare in uno studio successivo questi aspetti, dalla prospettiva dei legami di causalità. Al momento, le istituzioni altoatesine coinvolte nello Studio e l’Istituto di Studi Superiori dell’Università di Pavia sono impegnati in un’analisi approfondita dei dati di questo primo rilevamento.
A prescindere dai nessi causali ipotizzati questi risultati sottolineano che nelle infezioni da Covid-19, anche nel caso di decorsi lievi, è necessario tenere presente l’emergere di conseguenze psichiche.