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Coronavirus: “L’inquinamento ha contribuito alla rapida diffusione dell’epidemia”, ecco l’ipotesi avanzata da alcuni ricercatori italiani

Gli esperti di 4 università e della Società Italiana Medicina Ambientale hanno analizzato le relazioni fra inquinamento e diffusione del virus: “Il particolato atmosferico, oltre ad essere un vettore di trasporto, costituisce un substrato che può permettere al virus di rimanere nell’aria in condizioni vitali anche per alcuni giorni”

Di Tiziano Grottolo - 19 marzo 2020 - 19:08

TRENTO. Nei giorni scorsi i dati rilevati dai ricercatori della Nasa e di altri istituti hanno dimostrato come l’emergenza dettata dal coronavirus e le restrizioni adottate dai governi di Cina e Italia abbiano contribuito sensibilmente a far diminuire lo smog (QUI approfondimento).

 

Il dato emerge in maniera lampante nelle zone più inquinate, come ad esempio la pianura Padana dove i sensori del satellite Sentinel 5 hanno registrato il progressivo ridursi della nube di biossido di azoto, il gas emesso dai combustibili fossili, ovvero quello prodotto soprattutto da veicoli a motore e dalle strutture industriali. Se possibile c’è anche un motivo in più per rallegrarsi del calo dell’inquinamento, infatti un gruppo di ricercatori, composto da quattro diverse università e dagli esperti della Società Italiana Medicina Ambientale hanno indagato la relazione che esiste fra la presenza dell’inquinamento da particolato atmosferico e la diffusione di virus nella popolazione.

 

 

“È noto – scrivono i ricercatori – che il particolato atmosferico funziona da carrier, ovvero da vettore di trasporto, per molti contaminanti chimici e biologici, inclusi i virus”. Tramite un processo di coagulazione, messo in evidenza dagli studiosi, i virus hanno la capacità di “attaccarsi” al particolato atmosferico. Il problema nasce dal fatto che le particelle che formano il particolato, siano esse solide o liquide, sono in grado di rimanere in atmosfera anche per ore e giorni, in alcuni casi anche per delle settimane, viaggiando per lunghe distanze.

 

“Il particolato atmosferico – riprendono i ricercatori – forma anche un substrato che può permettere al virus di rimanere nell’aria in condizioni vitali per un certo tempo, nell’ordine di ore o giorni, in base alle condizioni ambientali”. Ad esempio alte temperature e una buona radiazione solare fanno aumentare la velocità di inattivazione del virus, diminuendo di fatto le occasioni di contagio. Un’elevata umidità, al contrario, può aumentare la virulenza del virus, aumentandone il tasso di diffusione.

 

 

Per verificare la possibile correlazione fra la diffusione del Covid-19 e l’inquinamento i ricercatori hanno incrociato i dati sulla concentrazione giornaliera di PM10 rilevati dalle Agenzie Regionali per la Protezione Ambientale (Arpa) e i dati sul numero di casi infetti riportati sul sito della Protezione Civile. Un lavoro fatto per ognuna delle province italiane. Dall’analisi di questi dati è stata messa in evidenza “una relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di PM10 registrati nel periodo che va dal 10 Febbraio al 29 Febbraio e il numero di casi infetti da Covid-19 aggiornati al 3 Marzo”. I risultati sembrerebbero indicare una relazione diretta tra il numero dei positivi per provincia e lo stato di inquinamento da PM10 dei territori, “la concentrazione dei maggiori focolai si è registrata proprio in Pianura Padana mentre minori casi di infezione si sono registrati in altre zone d’Italia”.

 

Il team scientifico ha notato come le curve di espansione dell’infezione presentino delle accelerazioni anomale proprio nelle regioni della Pianura Padana (le più inquinate), mentre abbiano un andamento, normale “perfettamente compatibili con i modelli epidemici, tipici di una trasmissione persona-persona”, nelle regioni del Sud. Per gli esperti: “Le fasi in cui si evidenziano questi effetti di impulso, ovvero di boost, sono concomitanti con la presenza di elevate concentrazioni di particolato atmosferico”.

 

 

Questi dati sembrerebbero dimostrare che, in relazione al periodo 10-29 Febbraio, concentrazioni elevate superiori al limite di PM10 in alcune Province del Nord Italia possano aver esercitato un’azione di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia in Pianura Padana, fenomeno che non si è osservato in altre zone d’Italia che presentavano casi di contagi nello stesso periodo. A sostegno di questa tesi ci sarebbe il caso di Roma dove, la presenza di contagi era già manifesta negli stessi giorni delle regioni padane senza però che si sia innescato un fenomeno così virulento. Alla luce di queste scoperte il team di ricercatori suggerisce l’adozione di misure restrittive riguardo al contenimento dell’inquinamento.

 

Per completezza riportiamo i nomi di chi ha contribuito a questa importante ricerca: Leonardo Setti (Università di Bologna), Fabrizio Passarini (Università di Bologna), Gianluigi de Gennaro (Università di Bari), Alessia Di Gilio (Università di Bari), Jolanda Palmisani (Università di Bari), Paolo Buono (Università di Bari), Gianna Fornari (Università di Bari), Maria Grazia Perrone (Università di Milano), Andrea Piazzalunga (Esperto Milano), Pierluigi Barbieri (Università di Trieste), Emanuele Rizzo (Società Italiana Medicina Ambientale), Alessandro Miani (Società Italiana Medicina Ambientale).

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