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“In un crepaccio sull'Himalaya ho 'sentito' le voci dei bambini: credevo di morire”, Oreste Forno: “Oggi grazie ai selvatici ho scoperto la montagna più autentica”

Non basterebbe un libro intero per raccontare Oreste Forno. Alpinista, guardiano di una diga e appassionato di animali, ha dedicato la sua vita alla montagna: "Dopo 7 anni di Himalaya ho deciso di cambiare vita: ho visto troppi amici morire. Oggi vivo in una baita isolata a 2.000 metri di quota e 'inseguo' orsi e selvatici: così ho ri-scoperto la montagna più autentica e poetica, lasciandomi le 'conquiste' alle spalle"

Di Sara De Pascale - 08 dicembre 2024 - 22:38

SONDRIO. Le passioni si trasformano. Crescono, maturano, a volte si affievoliscono e mutano, diventando qualcosa d'altro. Insomma, cambiano insieme a noi. Così lo è stato anche per l'alpinista Oreste Forno, che la montagna l'ha vissuta in tutti i modi contemplabili. Ha raggiunto (agognate) vette, sfidandole e sfidando le proprie capacità, per poi "optare" per un modo di vivere le terre alte completamente diverso, fatto di lentezza e di occhi che bramano bellezza. 

 

"Ho fatto un po' di tutto nella vita - esordisce, intervistato da Il Dolomiti -. E in questa mia esistenza la costante è sempre stata una: la montagna - fa notare -. Ho scalato sull'Everest e diversi 8.000, lavorando per anni come organizzatore e guida di spedizioni sull'Himalaya in tempi in cui dell'assalto alle terre alte non c'era nemmeno l'ombra. Niente bombole d'ossigeno e gli zaini carichi ce li si portava da sé". 

 

"I campi alti ce li costruivamo noi - prosegue nel racconto -. Ora si trova tutto già fatto: basta pagare (molto) e al campo base dell'Everest, che ormai è diventato un'autostrada, oltre alla tenda già montata ti danno anche il tè caldo - commenta -. Insomma, la montagna delle grandi conquiste e quel nostro modo di "fare" alpinismo non esistono più". 

 

E di conquiste, Forno, ne ha fatte davvero molte. Come alpinista, con il Mc Kinley (in Alaska), il Pic Lenin (in Pamir), per arrivare al Cho Oyu, in Tibet, la sesta montagna più alta della terra. E poi le più importanti nel ruolo di capospedizione, come al Dhaulagiri (Nepal), Everest (per il versante nord, dal Tibet) e Makalù (Nepal).

 

Vette raggiunte con non poca fatica, vissuto che nel tempo ha fatto comprendere all'uomo quanto rischioso possa essere fare determinati tipi di esperienza: "Con il primo figlio all'orizzonte ho cominciato a chiedermi se volessi ancora continuare a fare quella vita - ricorda -. Accompagnavo alpinisti sugli 8.000 e di incidenti ne ho visti tantissimi. Molti miei amici sono morti in altre spedizioni e sapevo che sarebbe potuto capitare anche a me: così, dopo 7 anni di Himalaya, ho deciso di smettere". 

 

"Alcune delle esperienze che mi hanno segnato di più? Sicuramente una spedizione sull'Everest nel 1991, durante la quale avevamo dovuto salvare l'amico ed alpinista Fausto De Stefani, colpito da un edema cerebrale a 500 metri dalla vetta. Poi ancora nel 1993 mentre percorrevamo la ovest del Makalu ho assistito all'ennesima tragedia sfiorata, con due portatori che hanno rischiato di morire sotto una valanga, che mi ha fatto dire 'definitivamente 'basta'".

 

Un'altra drammatica esperienza era avvenuta invece anche qualche anno prima, "mentre cercavo di conquistare il mio primo 8.000 (lo Shisha Pangma) - racconta -. Ero partito prima dei miei compagni al mattino e mentre proseguivo con gli sci sono caduto in crepaccio per decine di metri, atterrando su un blocco di ghiaccio: sotto di me c'era il vuoto. Ricordo di averci messo un bel po' a capire in che posizione mi trovassi: avevo lo zaino appeso al collo e i cinturini degli sci ancora attaccati alle caviglie. Il sangue sgocciolava e lì ho pensato che sarei morto: ero sereno, perché consapevole che sono cose che possono accadere". 

 

"Mentre mi trovavo lì, in attesa che tutto finisse, ho avuto tre visioni: ho rivisto mio padre che prima della partenza mi aveva detto ‘Ma devi proprio andare?’, poi ancora la mia ragazza di allora e infine ho sentito le voci dei miei amichetti d'infanzia: mi sembrava di essere in mezzo a loro mentre giocavamo insieme a nascondino".

 

Esperienze forti, preziose, che l'alpinista negli anni '90 ha deciso di racchiudere in un capitolo (che andava concluso), al quale ne è seguito uno nuovo e completamente diverso. Dopo gli anni dell'Himalaya ed una parentesi da giornalista ed editore (durata circa 7 anni ndr), infatti, un (altro) grande sogno realizzato: "Sono diventato guardiano di dighe a 54 anni: prima al lago della Vacca, sotto il Cornone di Blumone (Valcamonica), poi alla diga di Moledana (in Val dei Ratti. Fare quel lavoro mi sembrava la cosa più bella del mondo".

 

"Isolato, in mezzo alla natura, ho potuto dedicarmi alla scrittura, contemplando le bellezze che mi circondavano, riscoprendole ed apprezzandole di continuo". Tredici anni durante i quali è sbocciata una nuova passione, quella per i selvatici: "Così sono tornato ad affacciarmi a quel 'tipo' di montagna che vivevo e tanto amavo prima dell'alpinismo: una montagna più poetica e non di conquista, ma vissuta sempre con la voglia di superare in qualche modo i miei limiti".

Con videocamera alla mano e spostandosi a vivere in una baita a 2.000 metri di quota "isolata da tutto e tutti"(sopra il borgo di Monastero, frazione di Berbenno di Valtellina, in Provincia di Sondrio, sulle Alpi Retiche ndr), Oreste ha cominciato a nutrire a dovere il suo amore per gli animali, andandoli a cercare (sempre mantenendo le dovute distanze e con rispetto), scovandoli e 'catturandoli' in video e fotografie che oggi l'uomo condivide con il resto del mondo attraverso il suo canale YouTube e in incontri aperti alla cittadinanza in cui parla di aquile, orsi "ed all'occorrenza anche di convivenza".

 

"Vedere mamma orsa che allatta i cuccioli e che con le zampe li tocca come faremmo noi con le nostre mani mi ha fatto capire quanto 'umani' siano i plantigradi - conclude il 73enne -. Vivermi in questo modo le terre alte oltre a darmi tantissimo mi sta insegnando molto. Conoscenze che vorrei che arrivassero anche agli altri, perché di questi tempi ce n'è bisogno. Manca informazione, manca educazione, soprattutto per quanto riguarda i selvatici. Io, nel mio piccolo, cerco di fare la mia parte ma la strada è ancora lunga".

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