Dalla città smart alla città saggia, la lezione di Jack Ma (Alibaba) per la Trento Smart City Week


Anticipatore sociale, analista di macrotendenze consulente strategico
Il presidente e fondatore del gigante dell'e-commerce Alibaba, Jack Ma, che da qualche mese è anche l’uomo più ricco della Cina, ha sostenuto al recente forum di Davos e in diverse altre occasioni che, se una persona vuole avere successo, dovrebbe avere un Quoziente di Intelligenza elevato e, per non perdere quota e mandare in fumo tutto quanto, il suo Quoziente Emotivo (la capacità di rapportarsi agli altri) dovrebbe essere altrettanto ragguardevole. Però se uno poi vuole anche essere rispettato, ha bisogno di un notevole Quoziente d’Amore (Love Quotient), “il quoziente dell'amore, che le macchine non hanno mai…la nostra arma segreta per battere le macchine”.
In un mondo di tecnologie emergenti, la marcia in più non è la pura potenza cognitiva - i computer ci surclassano già ora - né solo un Quoziente Emotivo di base che ci assiste nel disciplinamento delle nostre emozioni e nel riconoscimento di quelle altrui e delle loro esigenze. Ciò che distingue gli esseri umani è l'amore, cioè il nostro sentimento di giustizia, la nostra creatività di fronte alle sfide, la nostra capacità di immedesimarci profondamente e di rispondere saggiamente.
L’imprenditore cinese è convinto che “stiamo addestrando i giovani a cercare di superare le macchine in aree in cui non li batteremo mai…e tuttavia una macchina non ha un cuore, un’anima, o convinzioni: l'essere umano, al contrario, possiede anima, convinzioni, valori. Siamo creativi, stiamo dimostrando che possiamo controllare le macchine. L'essere umano ha la saggezza, la macchina non ce l’ha”.
Per Jack Ma molti uomini hanno un QI elevato ma un LQ molto piccolo, mentre le donne raggiungono il perfetto equilibrio: “Quindi, se vuoi che la tua azienda abbia successo, se vuoi che operi con saggezza, con cura, allora le donne sono la scelta migliore”. Questa, a mio avviso, dovrebbe essere la bussola da impiegare per il futuro di “Trento Città Intelligente”. La città è costruita da tutti quelli che vi risiedono e la tecnologia smart è una mirabile cassetta degli attrezzi che può essere usata come catalizzatore per le dinamiche partecipative che prima erano impossibili da coordinare, oppure come volano per impulsi di comando e controllo che sono assolutamente antiquati, ma duri a morire. L’esito sarà determinato dai tre suddetti quozienti.
Vorrei esaminare alcuni aspetti di questa problematica.
Le “città intelligenti” sono caratterizzate da reti di sensori diffusi e distribuiti che generano grandi quantità di dati per modalità di gestione urbana centralizzata attraverso l’interconnessione di sistemi infrastrutturali precedentemente separati come la videosorveglianza, le stazioni meteorologiche, i sistemi semaforici e fognari, ecc. Il fine è quello di mappare la complessità del paesaggio urbano e di chi vi risiede per ricavarne un quadro il più chiaro possibile. I piani di “smartificazione” ora interessano intere metropoli come la Smart City di Rio de Janeiro, sponsorizzata da IBM, o lo Yokohama Smart City Project, che coinvolge giganti come Toshiba, Nissan e Panasonic.
La tesi di questo articolo è che se le città intelligenti devono diventare una modalità per porre i “big data” al servizio della prosperità umana, queste strategie dovranno essere separate da ristretti scopi e metriche tecno-economicistiche e rifondate sulla base di un pensiero autenticamente umanista ed ecologico: ciò comporta lo smantellamento di molte delle logiche di sorveglianza che sostengono le città intelligenti, ma anche il superamento di quelle contro-iniziative dal basso, magari anche incentrate sui cittadini e su spazi per i creativi, che in definitiva diventano oggetto di cattura e rebranding aziendale per le varie Cisco, Samsung, Siemens, Intel, Telecom, ecc.
Trento può essere un laboratorio di questo tipo di innovazione.
Il 31 gennaio terminerà la possibilità di partecipare alla Trento Smart City week, che quest’anno avrà come tema la “partecipazione”, come viene interpretata nella formula per la verità poco rassicurante: “La speranza dell’appartenere”. Il desiderio degli organizzatori, estremamente encomiabile, è quello di definire la città come “luogo in cui ciascuno può contribuire attivamente al miglioramento del benessere comune” e la partecipazione “non solo come azione, ma anche come sentimento di appartenenza e di responsabilità”. Di conseguenza ci si appella alle “smart people” e agli “smart citizens”: fatevi avanti, mostrate quel che sapete fare, date un contributo di cittadinanza attiva. La città è la vostra: “La sezione 'smart citizens' sarà riservata alle proposte che nascono da chi vive, anima o vuole rendere migliori città e territorio”.
Questa aspirazione non è soltanto lodevole, è anche tempestiva. Negli Stati Uniti la smartificazione delle città si è intrecciata indissolubilmente con gli apparati di sorveglianza militare. Conosciamo tutti le rivelazioni dei vari William Binney, Edward Snowden, Chelsea Manning e Julian Assange circa la sorveglianza capillare su scala planetaria per finalità sempre più discutibili. Abbiamo appreso che Smart TV e smartphone ci spiano e poi vendono i nostri dati; che robot aspirapolvere mappano le case dei proprietari e raccolgono dati vendibili; che Apple Siri, Google Assistant, Microsoft Cortana, Amazon Alexa, Samsung Viv sono configurati per registrare le nostre conversazioni e inviarne le trascrizioni a server remoti. Si tratta di una montagna di dati sensibili a disposizione di aziende, amministrazioni, governi, hacker che possono essere privi di scrupoli, o di delinquenti che remore non ne hanno per definizione (Alexa, Cortana, Siri et al: do our digital assistants hear more than we want them to? Engineering&Technology, 13 Oct 2017).
La città intelligente rischia di diventare la forma urbana archetipica della società di sorveglianza onnipresente basata sui dati, in cui le persone sono sempre più monitorate, catalogate e gestite come flussi logistici.
L’utente si trasforma in prodotto. Perfino Scientific American, un pilastro dell’accelerazionismo tecnologico-scientifico e della ricerca applicata al migliorismo sociale ha sollevato più di una perplessità sulla smartificazione delle città (The Inconvenient Truth about Smart Cities, Scientific American, November 17, 2017).
Le tesi avanzate sono tre:
(a) le città intelligenti non saranno utopie tecnologicamente adempiute. La tecnologia non rende una città più umana, più giusta, più altruista, più serena. Bisogna darsi da fare;
(b) le città intelligenti costano un occhio della testa sia in fase di equipaggiamento sia in fase di gestione e manutenzione ordinaria e straordinaria: senza finanziamenti pubblici adeguati i privati godranno di un notevolissimo potere negoziale;
(c) chi decide di cosa la città ha realmente bisogno e come dovrà operare in futuro? Le decisioni di cardinale importanza si moltiplicheranno, le risposte non saranno facili ma le ripercussioni potrebbero essere enormi.
Di simile tenore le critiche mosse dalla prestigiosa “Royal Society for the encouragement of Arts, Manufactures and Commerce” che invita a superare la nozione stessa di “città intelligente”, migrando progressivamente da un fuoco di attenzione concentrato sui dati a un accento sulle persone, sfruttando le piattaforme P2P (peer-to-peer) come “Wazoku” per abituare i cittadini a trovare assieme le soluzioni ai problemi comuni, anche attraverso il crowdfunding. La raccomandazione è in linea con le ambizioni di Trento: da un approccio verticalista, dall’alto verso il basso, a un approccio decentralizzato, orizzontale, condivisivo e distribuito in cui i cittadini si assumono delle responsabilità, investono tempo ed energie e condividono i loro saperi nell’interesse di tutti.
Questo è anche l’indirizzo promosso dall’Unione Europea e chiamato “sharing cities”. Ma la RSA fa un passo oltre rispetto a “città smart” e “città sharing”, in quanto queste ultime sono comunque pensate per far ragionare i cittadini su come far funzionare al meglio le tecnologie smart. Ciò non basta e così s’invoca un più ampio e profondo impegno nella ricerca di una società più equa: “Vogliamo incoraggiare le piattaforme e le parti interessate alla crescita inclusiva a esplorare nuovi modi di lavorare insieme verso obiettivi comuni…con i cittadini (e non le tecnologie) in prima linea nella co-progettazione della propria città”. È un passaggio di importanza cruciale. Le grandi aziende sono di fatto tenute a vendere la tecnologia smart sulla base dell’assicurazione che i cittadini potranno dirle cosa fare ma, come con i proverbiali golem o egregore, il rischio è che alla fine sarà lei a dirci cosa dovremmo fare. Il servitore che inverte i rapporti di potere sfruttando lo squilibrio di conoscenza e la dipendenza del padrone nei suoi confronti.
È poi l’implicazione di uno dei motti della Silicon Valley, per cui dovremmo sempre attenerci ai desideri della tecnologia. È un modo di pensare imbarazzantemente sorpassato. Per la verità lo stesso concetto di città smart risale ormai al lontano 1974 (cfr. “The State of the City: A Cluster Analysis of Los Angeles”, a cura del Community Analysis Bureau) e lo slogan della Siemens – “ottimizzare il controllo e la regolazione delle risorse per mezzo di sistemi informatici autonomi” – è quasi paleo-futurista. Questo modo di pensare non è per nulla in sintonia con gli umori di un elettorato e di una cittadinanza che rivendicano sempre maggiori spazi di partecipazione nel processo decisionale, nella gestione della cosa pubblica e nella formulazione degli obiettivi e delle visioni di futuro che guidano queste attività.
Si esige un rapporto più maturo e adulto con la gestione della cosa pubblica. Trento si vuole pioniera, battistrada: giochi quel ruolo, dunque! Una città saggia è quelle che fa leva sugli investimenti nello smart per promuovere attivamente mutualità, umanismo e umanitarismo, vivibilità, civismo, sussidiarietà, disintermediazione, resilienza, autodeterminazione personale e collettiva ad ogni livello, fino al coordinamento diretto dei cittadini e all’avvento di uno spirito imprenditoriale diffuso. L’agilità è la virtù chiave. Una città è più resiliente quanto più viene incontro ai bisogni in costante trasformazione ed aggiornamento dei propri cittadini, invece di badare specialmente a misurare ossessivamente tutto, anche le cose immisurabili, imponderabili, ineffabili.
Si può essere tecnologicamente smart e socialmente stupidi e infantilizzanti. Trento ha già imboccato la via dell’open source e degli open data. Non si dovrebbe tornare indietro a dati proprietari controllati dalle multinazionali. Il passo successivo, invece, dovrebbe essere quello di migliorare le relazioni tra cittadini (che non vanno visti come utenti di servizi), aziende e amministrazione pubblica attraverso un ecosistema sociotecnologico guidato dalla priorità di potenziamento della trasparenza, della consapevolezza, della delega, della partecipazione e dell’intelligenza collettiva.