Il dibattito sulla riforma delle regole di bilancio europee ai blocchi di partenza


Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
di Andrea Fracasso, docente di politica economica, Università di Trento
A pochi giorni dall’inizio della presidenza di turno dell’Unione Europea (Ue) affidata alla Francia, ha fatto notizia la lettera inviata dal presidente Francese Macron e dal Presidente del Consiglio Draghi al Financial Times per sollecitare un cambiamento radicale nelle regole europee che garantiscono la stabilità finanziaria dell’area euro e dell’Ue.
Il cambiamento di tali regole è reso necessario sia dai limiti evidenti delle norme e delle prassi sviluppate in passato, sia dalle mutate condizioni macroeconomiche indotte dalla crisi pandemica. Una crisi che, ricordo, ha innalzato il livello del debito pubblico in tutti i Paesi e ha costretto l’Ue a inaugurare un programma di investimenti e riforme comuni finanziati con una nuova forma di indebitamento collettivo dell’Unione (invece che dei Paesi beneficiari dei fondi).
L’occasione di un cambiamento del quadro delle regole di bilancio è offerta dalla necessità di ripristinare le regole del Patto di Stabilità e Crescita entro la fine del 2022 dato che questo, in parte per l’ampiezza della crisi e in parte per l’inadeguatezza delle norme, è stato sospeso al fine di consentire una più vigorosa risposta di politica economica alla crisi.
Il Patto di Stabilità e Crescita è un Protocollo ai Trattati dell’Unione che stabilisce un sistema di regole per il coordinamento e la sorveglianza delle politiche di bilancio dei Paesi dell’Ue. Lo scopo del Patto è di garantire la stabilità economico-finanziaria dei singoli Paesi e dell’area euro, prevenendo l’eccessiva accumulazione di debito pubblico e favorendo la conduzione di politiche di bilancio prudenti.
Lo scopo delle regole è duplice: da un lato evitare che governi e parlamenti perseguano i propri obiettivi di breve termine attraverso politiche così espansive da compromettere la stabilità delle finanze pubbliche; dall’altro, preservare una spazio di manovra fiscale per affrontare le fasi negative del ciclo economico e per finanziare gli investimenti produttivi. La difficoltà nel realizzare un Patto di Stabilità e Crescita che sia rigoroso ma anche flessibile ha caratterizzato la storia travagliata di questo strumento di governance economica. Riformato a metà degli anni 2000 per tenere meglio conto degli effetti della congiuntura economica sulle finanze pubbliche, rivisto nel 2011 per introdurre un controllo più forte sull’indebitamento pubblico, rivisitato nel 2015 per consentire una interpretazione più flessibile delle norme, il Patto sarà riformato ancora una volta per renderlo più semplice, flessibile e adatto a riflettere le mutate condizioni internazionali dopo la pandemia.
La lettera francese e italiana al Financial Times fa implicitamente riferimento a un documento tecnico (Revising the European Fiscal Framework) redatto da Francesco Giavazzi, Veronica Guerrieri, Guido Lorenzoni e Charles-Henri Weymuller. La revisione del quadro fiscale europeo, secondo gli autori, deve riflettere tre recenti sviluppi. Primo, il contesto economico caratterizzato da bassi tassi di interesse naturali e da un’elevata domanda di titoli finanziari sicuri, ossia un contesto che limita l’efficacia della politica monetaria e crea maggior spazio per l’intervento fiscale di stabilizzazione economica (nella misura in cui venga comunque garantita la stabilità finanziaria nel medio-lungo termine). Secondo, la creazione del programma NextGeneration EU che permetterà all’Ue di mobilitare risorse per investimenti pubblici favorevoli alla crescita economica dell’Unione. Terzo, la necessità di utilizzare una maggior capacità di spesa e di investimento da parte dei Paesi europei al fine di raggiungere gli ambiziosi obiettivi collegati alla transizione digitale e alla transizione ecologica. Dato l’obiettivo primario di preservare la sostenibilità del debito pubblico, il documento propone una riforma delle regole europee che tenga in considerazione i tre fattori di cui sopra e che agisca su due fronti. Data la complessità tecnica del documento cercherò qui di rappresentarne solo gli elementi essenziali e funzionali ai miei successivi commenti.
La prima proposta del documento è la creazione di un piano per l’assorbimento (di una parte) dei titoli di stato nazionali accumulati dalla Banca Centrale Europea (BCE) durante gli ultimi 10 anni da parte di una nuova Agenzia europea di gestione del debito. L’Agenzia potrebbe indebitarsi sul mercato emettendo titoli europei sicuri (grazie alle garanzie offerte dagli Stati e dall’Ue, un po’ come ha fatto la Commissione per il NextGeneration EU) e potrebbe definire dei piani di rimborso differenziati da parte dei Paesi europei. Liberando la BCE di una parte del debito pubblico acquistato durante le fasi acute, questa Agenzia rafforzerebbe la capacità della BCE di condurre una politica monetaria indipendente e permetterebbe di introdurre dei meccanismi redistributivi volti a ridurre il rischio (azzardo morale) che i Paesi possano sviluppare politiche di bilancio poco prudenti grazie alle garanzie e ai risparmi concessi dall’Agenzia. Nei fatti, questa proposta sarebbe finalizzata a “congelare” tutto il debito aggiuntivo che i Paesi hanno dovuto emettere per fronteggiare fattori eccezionali, quali la pandemia e la crisi globale del 2008-2009, riportando l’area euro in una situazione più simile a quella pre-pandemica.
La seconda proposta del documento si concentra sulla revisione delle regole fiscali per contenere il debito pubblico dei Paesi e propone un meccanismo che si fonda su un processo di aggiustamento del debito più graduale e diversificato da Paese a Paese. Un processo che dovrebbe essere sensibile alla quota di spesa dedicata agli investimenti per la crescita e per i beni pubblici europei e che dovrebbe variare secondo l’andamento della congiuntura economica dei singoli Paesi. Una revisione pragmatica delle regole che, riducendo l’attenzione al saldo di bilancio annuale, si concentra sul contenimento della crescita di quella parte della spesa pubblica che non rientra nelle fattispecie citate in precedenza (crescita, sfide europee, stabilizzatori automatici).
C’è molto di buono nel documento, a partire dalle intenzioni degli autori fino alle indicazioni offerte, dai principi generali che sottendono il lavoro ai dettagli delle specifiche proposte. E’ indubbio infatti che vada trovata una qualche soluzione all’eredità pesante che la pandemia lascia sulle finanze pubbliche europee e che sia necessario rendere più comprensibili ed efficaci le regole di bilancio. Tuttavia, credo sia bene mettere in evidenza due aspetti problematici che hanno finora ricevuto poca attenzione dalla stampa, nonostante la centralità che essi avranno in questa fase di negoziazioni e discussioni costruttive.
In primo luogo, se è vero che la proposta dell’Agenzia permetterebbe alla BCE di liberarsi dei titoli pubblici accumulati durante le crisi (un’eredità che condizionerebbe le decisioni di politica monetaria nei prossimi anni), è altrettanto possibile che, se non opportunamente definite, le funzioni attribuite all’Agenzia europea del debito possano ridurre la libertà di azione della BCE sul mercato dei titoli.
Se all’Agenzia fossero attribuite tutte le funzioni di gestione del debito nazionale trasferito a livello europeo, includendo quindi le forme di assistenza finanziaria ai Paesi che incontrano temporanee difficoltà a finanziarsi sul mercato a prezzi ragionevoli (fatto possibile se l’Agenzia dovesse coincidere con il Meccanismo Europeo di Stabilità - MES), la BCE potrebbe avere difficoltà a realizzare massicci acquisiti dei titoli pubblici emessi da singoli Paesi in difficoltà, anche qualora questo fosse necessario per implementare la politica monetaria. Tali difficoltà costituirebbero un problema serio se si considera che i poderosi programmi di acquisto dei titoli di Stato nazionali da parte della BCE sono stati giustificati proprio dalla necessità di rimuovere quelle frizioni nei mercati finanziari europei che impedivano allo stimolo monetario comune (bassi tassi di interesse e abbondante liquidità disponibile) di raggiungere in egual misura tutti i Paesi dell’area euro.
La stabilizzazione dei mercati dei titoli di Stato è stata uno strumento straordinario con il quale la BCE ha assicurato la trasmissione della liquidità e il buon funzionamento del sistema bancario europeo in ogni angolo del continente, intervenendo anche e soprattutto dove maggiori erano le tensioni. Questo tipo di interventi della BCE sarebbe ancora tecnicamente e politicamente possibile dopo l’istituzione di una Agenzia del debito europeo? Se sì, a quali condizioni? L’Agenzia sarebbe chiamata ad occuparsi soltanto del debito aggiuntivo creato per la pandemia, lasciando così alla BCE la possibilità di operare su tutto il debito rimanente e su quello che verrà emesso in futuro, oppure il mandato dell’Agenzia potrebbe in qualche modo estendersi e confondersi con quello del MES e della BCE? Quale sarebbe la governance dell’Agenzia? Quella di un’istituzione dell’Ue o quella di un ente intergovernativo che, al pari del MES, potrebbe riproporre uno scontro politico tra Paesi ad alto debito e Paesi “frugali”? Se risolvere il problema del debito pandemico è certamente necessario, altrettanto importante è definire quale istituzione potrà occuparsi dei problemi della parte “non pandemica” dello stock di debito pubblico, garantendo piena libertà, discrezionalità e autonomia alla BCE.
Per quanto invece attiene alla proposta di contenere l’aumento della spesa pubblica non indirizzata agli investimenti per la crescita, alla realizzazione delle sfide comuni europee o alla implementazione degli stabilizzatori automatici del ciclo economico, va osservato come essa denoti un importante cambiamento nel peso relativo attribuito alle parole “stabilità” e “crescita” nel Patto di stabilità e crescita. Infatti, mentre il nuovo assetto giustificherebbe ogni sforzo di spesa pubblica diretto ad aumentare la crescita economica o a conseguire beni pubblici europei, esso stigmatizzerebbe le spese discrezionali di bilancio (cioè aggiuntive a quanto già fanno gli stabilizzatori automatici) per contrastare una eventuale recessione.
Siamo certi, mi chiedo, che l’opinione pubblica e la classe politica italiana siano disposte a scambiare un minor sostegno pubblico all’economia durante le fasi recessive del ciclo in cambio di una maggior spesa per aumentare il tasso di crescita nel medio-lungo termine? Personalmente credo questa sia una possibilità piuttosto remota.
Questi ultimi anni hanno mostrato chiaramente come il raggiungimento di una più elevata crescita economica non sia stato, agli occhi dei più, un obiettivo sufficientemente attraente da giustificare i costi imposti dalle riforme strutturali necessarie a stimolare lo sviluppo. La protezione degli interessi delle categorie più organizzate ha avuto spesso la meglio sugli interventi di cambiamento utili ad alimentare una più vigorosa crescita dell’economia. L’Italia è davvero disposta a cambiare in modo così profondo il proprio approccio alla gestione della politica economica e della spesa pubblica? Una regola di contenimento della spesa volto alla riduzione del debito non lascia spazio, per esempio, a un aumento discrezionale dei sussidi di disoccupazione o a un aumento delle spese per le pensioni (salvo, ovviamente, che i costi di questi interventi non siano coperti dalla riduzione di altre spese, per esempio difesa, salute, sicurezza). Siamo certi che limiti alla spesa di questo tipo siano politicamente più accettabili dei vincoli sul saldo di bilancio attualmente imposti dal Patto di stabilità e crescita?
Questa domanda non è oziosa. Anche chi è convinto, come chi scrive, che il controllo della spesa pubblica possa essere un tassello importante per garantire la stabilità delle finanze pubbliche in futuro, deve comunque interrogarsi sulla compatibilità del sistema di regole di bilancio con il sistema politico e il quadro di relazioni industriali esistente. Usare delle nuove regole per forzare un cambiamento culturale e di politica economica non è possibile, né desiderabile; questa strategia è già stata adottata in passato con scarsi risultati e i nodi sono venuti al pettine con la crescita del populismo euroscettico.
Proporre ai partner europei un sistema basato sul contenimento della crescita della spesa pubblica prima di aver appurato l’esistenza di un vasto consenso, nella maggioranza delle forze politiche e nelle parti sociali, sulla priorità da attribuire alla crescita rispetto alla stabilizzazione del ciclo economico sarebbe rischioso. Paradossale sarebbe scoprire tardivamente che la proposta franco-italiana, pensata per introdurre maggiore flessibilità nelle politiche di bilancio nazionali, possa finire per spingere verso una politica economica che ammette maggior discrezionalità soltanto in relazione a specifiche forme di spesa e investimento in assenza di un consenso sulla loro preminenza. Un dibattito pubblico, trasparente ed esteso, sulle finalità della politica economica italiana ed europea deve precedere, non seguire, il nostro contributo all’individuazione delle nuove regole del Patto di stabilità e crescita. In assenza di una seria e trasparente discussione sul tema, nessuna nuova regola potrà funzionare in modo efficace, né risultare più condivisa di quelle attualmente in essere.
Chiaramente questo vale, mutatis mutandis, per tutti i Paesi europei. Per individuare una nuova filosofia comune, ciascun Paese dovrà abbandonare posizioni ideologiche alla finanza pubblica e impegnarsi per far maturare un consenso diffuso intorno alle soluzioni operative da adottare.