Il Covid è in ritirata ed arriva la ripresa, ma torna anche l'inflazione?


Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
di Luigi Bonatti e Andrea Fracasso, docenti di politica economica della Scuola di Studi Internazionali e del Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Trento
La recente accelerazione nella crescita dei prezzi dei prodotti industriali e dei prezzi al consumo in Cina e negli Stati Uniti, con valori rispettivamente pari a 6,8% e 4,2% ad aprile su base annua, ha risvegliato l’attenzione dei media internazionali sul possibile ritorno dell’inflazione a valori vicini o persino superiori al passato. Un fenomeno interessante per tre motivi. Primo, questo rappresenta una inversione nel prolungato periodo di bassa inflazione (o persino deflazione) osservato nel mondo, e in particolare nei paesi avanzati, negli ultimi decenni. Secondo, l’innalzamento dell’inflazione è un indicatore indiretto della ripresa della domanda mondiale, accelerata dai forti contributi dati dalle politiche pubbliche espansive, ma anche dalla ripresa di investimenti e aspettative più ottimistiche per il futuro. Terzo, rimane alta l’incertezza sulla durata di questo fenomeno nel tempo, che potrebbe ridursi a una “fiammata” dei prezzi, o innescare una spirale di inflazione.
L’origine di questo rapido aumento dei prezzi è da ritrovarsi in un fenomeno piuttosto semplice, la rapida riapertura di molti settori produttivi che, per far fronte alla ripresa della domanda privata dopo i mesi di risparmio “indesiderato” durante la pandemia, hanno aumentato e concentrato temporalmente la domanda di materie prime, energia, prodotti intermedi e servizi di trasporto. Molte imprese di prodotti finali si trovano nella posizione di dover far fronte a un rapido aumento di ordini (per rispondere alla domanda, spinta dalle misure pubbliche di rilancio dell’economia), mentre cercano al contempo di ri-costituire le scorte, ridotte durante il lockdown. Questo ritmo di crescita della domanda non può essere soddisfatto dall’offerta in tutti i settori, specie nel campo della produzione di materie prime e prodotti intermedi ma anche in questi settori di servizi dove persistono importanti limitazioni e rallentamenti dovuti alle misure anti-Covid19, e ciò crea importanti strozzature sul lato dell’offerta.
Questa discrasia temporale nei tempi della produzione e del commercio di prodotti e servizi diversi rappresenta una delle manifestazioni della forte eterogeneità settoriale osservata furante la ripresa dalla crisi pandemica. Alcuni settori, specie alcuni servizi, rimangono bloccati dalla scarsa mobilità delle persone e dalle limitazioni sul posto di lavoro connesse alla protezione individuale; altri settori riprendono vigorosi beneficiando della volontà delle persone di “utilizzare” i risparmi forzati di questi mesi, degli incentivi pubblici al consumo privato, e degli investimenti pubblici. Un fenomeno peculiare che si riflette non solo in andamenti molto diversi della produzione e dell’occupazione, ma anche dei prezzi.
Se gli esperti sono unanimi nell’analisi delle origini della fiammata inflazionistica (pur con differenze sul ruolo giocato dall’accorciamento delle catene globali del valore, da alcuni tentativi di speculazione, dall’abbondanza di credito e liquidità nell’economia), maggiore è il disaccordo sulla durata prevista del fenomeno. E’ infatti chiaro che se l’aumento dei prezzi rimane circoscritto e temporalmente limitato, esso si dissolverà con la graduale ripresa delle attività, l’accumulazione delle scorte e la riduzione dello stock di risparmi forzati. Al contrario, se si verificheranno “second round effect”, allora l’inflazione potrebbe diventare stabilmente più alta. I principali second round effect sono tre: l’impatto di un aumento dei costi della produzione sui prezzi al consumo, dovuto al tentativo delle imprese di conservare i margini di profitto; l’aumento delle aspettative di inflazione per il futuro; collegato a questo, l’aumento (più che) proporzionale dei salari in tutti i settori.
Il primo canale sembra già essere in moto. Difficile infatti per le imprese non rivedere i listini dopo aver registrato aumenti anche del 300% su metalli, legno e altri prodotti. La scarsità legata alle strozzature di offerta, si noti, aumenta il potere di mercato delle imprese che riescono a portare i propri prodotti sul mercato. Il secondo canale delle aspettative sembra pure attivo, grazie all’attesa di una politica di bilancio, di una politica monetaria e di una politica del credito molto generosa negli Stati Uniti e in altri paesi. La Federal Reserve ha esplicitamente ribadito l’intenzione di non voler soffocare la ripresa con un aumento dei tassi di interesse prima del riassorbimento della forza lavoro espulsa (processo, si noti, rallentato anche dalle strozzature sul lato dell’offerta e dalla crescita eterogenea dei diversi settori e dei diversi territori).
Più complessa la valutazione del terzo canale, quello dei salari. La maggioranza di osservatori, incluse le autorità di molte banche centrali come la BCE, ritengono improbabile una spirale salari-prezzi. Per quanto frizzante, l’economia mondiale sta vivendo un periodo di ripresa da una crisi di drammatiche proporzioni che ha lasciato disoccupate o sotto-occupate milioni di persone. Questa massa di lavoratori e lavoratrici in difficoltà non sta premendo sul mercato del lavoro soltanto grazie agli interventi pubblici a sostegno del reddito, dell’occupazione a tempo ridotto e delle imprese in difficoltà. Questa abbondanza di offerta di lavoro “invisibile” contribuirà a limitare la crescita dei salari una volta che i sostegni verranno rimossi. E’ questa considerazione a motivare le banche centrali a non modificare la propria posizione espansiva: la fiammata inflazionistica sarà limitata e passeggera, e i problemi nel mercato del lavoro la spegneranno.
Pur sensate, queste valutazioni, a nostro modo di vedere, sottostimano due fenomeni importanti. Il primo riguarda la durata dei sostegni pubblici a lavoratori e imprese. Proprio la gravità della crisi e l’insofferenza crescente per le difficoltà associate alle restrizioni hanno spinto le autorità politiche ad adottare e preservare politiche di sostegno ad ampio raggio che potranno essere rimosse soltanto molto lentamente e gradualmente. Questo approccio è facilitato dalla disponibilità delle banche centrali a sostenere il mercato del credito, il sistema bancario e la liquidità, rendendo meno costoso l’indebitamento pubblico. La seconda questione riguarda la natura settoriale delle crisi e della ripresa: le caratteristiche dei sistemi di pubblico impiego, i mismatch di competenze richieste e possedute da lavoratori impegnati in settori diversi, e le difficoltà connesse alla mobilità territoriale delle persone possono rendere il mercato del lavoro contemporaneamente depresso e surriscaldato: depresso per la bassa partecipazione al lavoro e la sottooccupazione “sovvenzionata”, surriscaldato per l’aumento della domanda di lavoro qualificata nei settori in più forte ripresa. A questo si aggiunge un settore pubblico in forte espansione (numerica e reddituale) grazie alle misure contenute nei programmi di rilancio europei e americani.
In tale contesto, non è da escludere che finita l’emergenza Covid, al rialzo dei prezzi di molti beni e servizi spinti all’insù dai maggiori costi della logistica, dalle misure di sicurezza sanitaria, dagli aumenti dei prezzi delle materie prime e dei semilavorati, faccia seguito un secondo round, ovvero s’inneschino consistenti aumenti salariali per le categorie che godono di più potere contrattuale e protezione politica (a cominciare dal pubblico impiego). E ciò mentre contemporaneamente altri settori e lavoratori sono in sofferenza, con la politica che cercherà di tenere in piedi sussidiandolo ad oltranza - almeno fin quando avrà i soldi per farlo - tutto quello che è in crisi, abbia o meno possibilità di ripresa. Se tale scenario dovesse materializzarsi, e in Italia più che altrove ci sono le condizioni affinché ciò accada, la fiammata inflazionistica che accompagnerà la ripresa post-Covid potrebbe trasformarsi in stagflazione, cioè in una situazione in cui un’inflazione persistentemente e non marginalmente più elevata di quella a cui ci siamo abituati negli ultimi anni convive con un’economia stagnante o dalla crescita assai anemica.
Un effetto indiretto della ripresa delle aspettative di inflazione è l’aumento dei tassi di interesse di mercato, che negli Stati Uniti già si inizia a osservare. Un aumento proporzionale dei tassi nominali, che lasci i tassi reali inalterati, è nell’ordine delle cose. Un aumento più che proporzionale, qualora i mercati si convincessero che le banche centrali dovranno eventualmente alzare i tassi di interesse, potrebbe invece rallentare la politica di investimenti per la ripresa e aggravare i problemi di sostenibilità del debito pubblico. Un aumento meno che proporzionale dei tassi di interesse, invece, potrebbe creare un ulteriore incentivo agli investimenti (meglio essere debitori nei periodi di inflazione inattesa) e favorire la sostenibilità del debito pubblico (con un calo del rapporto debito / Pil grazie alla crescita nominale del Pil, e all’aumento delle entrate fiscali). Difficile non interpretare l’attivismo delle banche centrali nei mercati dei titoli obbligazionari come un tentativo di preservare più a lungo possibile quest’ultimo scenario.
L’eccezionalità del periodo che stiamo vivendo, la stretta connessione tra fenomeni sanitari ed economici, gli effetti spillover generati dall’evoluzione dell’economia e della pandemia nei diversi paesi rendono estremamente difficile fare delle previsioni accurate. Rimane importante quanto meno interrogarsi sui legami tra andamento settoriale della ripresa, dei mercati del lavoro, della spesa pubblica e dell’inflazione.