Muoversi nello spazio, sedersi, camminare ed ascoltare: al Burel l'installazione sonora di Jessica Moss per 'vivere' la Natura Morta
Il ritmo del violino crea quasi dei passi di danza per poi lasciare spazio alla voce che, con la musica che passa in secondo piano, crea una sorta di preghiera. Da lì si sentono rumori bellici, quali le pale di un elicottero, e dei latrati. Tutto ciò trasmette un pensiero che non volta le spalle al terrore ma propone uno sguardo di speranza

BELLUNO. Sarà visitabile fino all’8 dicembre al Museo d’arte contemporanea Burel di Belluno, ad ingresso gratuito di sabato dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 15.30 alle 18.30 e di domenica dalle 15.30 alle 18.30, la nuova mostra curata da Daniela Zangrando che interpreta il tema dell’anno, la Natura Morta, attraverso un’installazione sonora di Jessica Moss, violinista, compositrice, discografica canadese che con la sua opera si focalizza sulla questione della natura umana.
Andando ad approfondire l’artista si può vedere che, dopo gli studi, comincia il suo percorso nel mondo della musica classica per poi collaborare con band iconiche, musicisti e artisti ed approdare infine al lavoro solista dopo l’invasione di Gaza nel 2014. Affrontando la sofferenza e il senso di inutilità, si mette davanti alla rabbia, al disgusto, all’amore e all’amarezza con il linguaggio proprio del suono, del silenzio, del rumore, del verso, della vocalità, convinta che la musica possa essere origine di comunione con l’altro, e forse anche di speranza.
La sua natura morta sposta l’accento mettendo in gioco ed in questione la natura umana e facendo sorgere delle domande come “La natura umana è morta? Sta morendo? È di questa natura che dobbiamo prenderci cura? Proprio questa ad essere in pericolo, sul punto del manifestarsi di una caduta? Cosa si può fare di fronte all’insensata quantità di un dolore perpetrato? Come sopportare l’orrore? Come pensare a questa morte della natura?”.
Daniela Zangrando commenta così la sua scelta di portare Jessica Moss a Belluno: "Conosco la ricerca di Jessica Moss da quasi vent’anni, da quando un amico mi aveva fatto ascoltare qualche traccia da un album dei A Silver Mt. Zion, band con la quale Jessica Moss ha lungamente collaborato e che da lì non ho mai smesso di seguire. Album dopo album, ho capito e studiato meglio poetica, intenti e background, processi di composizione e metodologie di studio e mixaggio, approcci performativi e di comunicazione con il pubblico, e ho intravisto di volta in volta una resistenza che ha continuato ad affascinarmi. Qualche mese fa, ho atteso con trepidazione l’uscita di ‘For Unrwa’. Il primo di marzo, ho immediatamente acquistato la traccia. Quarantadue minuti che mi hanno scombussolato i pensieri e hanno messo a ferro e fuoco tutte le mie sensazioni. Ho desiderato invitare Jessica Moss al Museo Burel molto prima di questa uscita, ma dal primo marzo è diventata una priorità nei miei pensieri. Come parlare di natura morta ignorando una natura umana in caduta? Lasciar perdere e non provare a ragionare su un’umanità dolente non sarebbe stato come dire che nel punto cruciale di una composizione, il momento centrale della nostra programmazione, non viene prodotto alcun suono. E allora io proprio di quei suoni avevo bisogno, dei suoi, di quella voce, necessitavo di Jessica Moss”.
La curatrice fa inoltre sapere che l’essersi avvicinata al post-rock canadese, in particolare a gruppi dove il post-rock si mescola con la musica classica, le ha permesso di osservare le contaminazioni reciproche tra i musicisti del panorama canadese, gli scambi di competenze, i passaggi di concetti, di energie, di atteggiamenti, di prese di posizione etiche e politiche e tutto ciò ha influenzato il suo modo di pensare all’arte e anche al lavoro che porta avanti al Museo Burel.
Lo spazio museale, questa volta, permetterà di muoversi nello spazio, sedersi, camminare ed ascoltare, rendendosi conto che in una sala apparentemente vuota, in realtà c’è un mondo creato da una traccia musicale che conduce in una sorta di viaggio ipnotico dove si riscontrano echi di accenti popolari, di sonorità klezmer ed orientaleggianti in un insieme quasi orchestrale. Il ritmo del violino crea quasi dei passi di danza per poi lasciare spazio alla voce che, con la musica che passa in secondo piano, crea una sorta di preghiera. Da lì si sentono rumori bellici, quali le pale di un elicottero, e dei latrati. Tutto ciò trasmette un pensiero che non volta le spalle al terrore ma propone uno sguardo di speranza: “A me, tutte le volte che lo ascolto, catapulta in un’altra pagina musicale sofferta, ma che ho sempre trovato densa di attesa: il Lacrimosa della Messa da Requiem di Mozart. Entrambi rispettano la paura di un tempo che potrebbe essere troppo poco, rispettano le condanne. Entrambi fanno però risuonare un’incalcolabile attitudine. Quella al futuro” conclude Zangrando.