"Dal cellulare perso all'esplosione del sole, in scena una sconfitta collettiva su cui riflettere", Jacopo Giacomoni racconta "La più grande tragedia dell'umanità"
Lo spettacolo è in programma lunedì 18 novembre nella suggestiva cornice della Villa Romana di Orfeo. Jacopo Giacomoni: "L'intenzione è creare un cortocircuito tra finzione e realtà per far riflettere il pubblico sulla comunicazione contemporanea e generare domande costruttive"

TRENTO. Se ve lo domandassero a bruciapelo, sapreste indicare la tragedia più grande dell'umanità? Probabilmente, prima di rispondere, ci dovreste riflettere almeno un po'.
Ed è proprio partendo da questo spunto che prende le mosse lo spettacolo "La più grande tragedia dell'umanità" – prodotto dalla compagnia Malmadur e Evoè!Teatro, in partnership con Teatro Stabile di Bolzano e Centro Servizi Culturali S. Chiara – che andrà in scena lunedì 18 novembre (ore 20.30) a Trento, nella cornice tanto affascinante, quanto inusuale, del sito archeologico di Villa Orfeo.
"Questo lavoro può essere definito un dispositivo performativo – spiega a il Dolomiti l'autore e regista Jacopo Giacomoni – che ruota, coinvolgendo direttamente il pubblico, attorno a due temi essenziali: la spettacolarizzazione del dolore e la sua percezione, che cambia a seconda della sua rappresentazione".
E sul palcoscenico, sul quale agiranno i performer David Angeli e Yoko Yamada, il pubblico verrò invitato a riflettere, e a mettere in gara, eventi "terribili" come la perdita del cellulare o un amore tradito, ma anche un'epidemia o addirittura l'esplosione del sole, oppure una più "delicata", ma non meno terribile, scomparsa dell'empatia. Fino a porsi una domanda: qual è il muro contro cui far schiantare questo incredibile gioco?
Jacopo Giacomoni, lo spettacolo – vuoi per i temi affrontati, vuoi per i suoi tatti generali – si preannuncia tutt'altro che banale. Cosa deve aspettarsi il pubblico?
Tutto parte da un'idea semplice, che si trasforma però in un particolare meccanismo che spinge le persone a scegliere, tra alcune proposte, quella che ritengono la tragedia più grande. Questa poi verrà subito messa "in gara" con una nuova, in vortice in cui il pubblico viene invitato a soppesare il dolore, riflettendo dentro di sè e assieme alle altre persone su quello che sta avvenendo. Gli attori in scena saranno quasi dei presentatori di un gioco "meta teatrale" che ha due tematiche cardinali: in primis la comunicazione contemporanea del dolore, toccando anche i media e i social network, e poi come è possibile portarlo in teatro.
Questo evidentemente prevede una spettacolarizzazione, mi permetta il gioco di parole, della spettacolarizzazione del dolore a cui assistiamo quotidianamente.
Assolutamente sì, il pubblico si troverà di fronte ad un crescendo nell'utilizzo di strumenti di rappresentazione: si parte dalla lettura, e quindi dall'immaginazione, e pian piano il pubblico viene investito con altre tecniche di spettacolarizzazione come la musica, le immagini, intrecciate alle interpretazioni e ai commenti degli attori, per finire con i video. In sintesi, si sottolinea che il teatro utilizza gli stessi mezzi che intercettano ogni giorno la nostra sensibilità.
Una curiosità: lei è un apprezzato musicista oltre che drammaturgo, come si innesta sul suo percorso artistico quella che a tutti gli effetti si può considerare una sperimentazione teatrale?
Tutto nasce dalla volontà di approfondire il tema della partecipazione diretta del pubblico teatrale, intrecciandola con un fattore come la casualità di quello che può accadere durante uno spettacolo. Nello specifico, questo lavoro trae ispirazione da due eventi straordinari: l'eccezionale acqua alta a Venezia del novembre 2019, un "record" secondo solo a quello del 1966, e la successiva pandemia. Ne è scaturita una riflessione su come le persone affrontano questo tipo di avvenimenti sconvolgenti, anche sulla base di come questi vengono raccontati, e questa si è declinata poi nello spettacolo.
Raccogliamo l'assist: portare sul palcoscenico questa riflessione è un modo per affermare che il teatro può contribuire a "formare" le persone nell'ottica di un migliore approccio alla comunicazione contemporanea?
In un certo senso sì, e penso che questo sia uno dei compiti fondamentali del teatro. Viviamo in una realtà che, mai ora, ci mette di fronte ad un continuo racconto di ciò che accade, a partire dai social network fino ai media. Talvolta i risultati sono addirittura grotteschi, ma arrivano comunque a ritagliarsi spazi importanti. Il teatro ci permette però di guardare noi stessi dall'esterno, uscendo dal "tempo della quotidianità", e di poter riflettere attentamente su molti aspetti.
Una curiosità, tra i due protagonisti spicca Yoko Yamada, attrice che proviene dal mondo della stand-up comedy. Che valore aggiunto porta questo tipo di approccio?
È un profilo assolutamente adatto a questo progetto, questo alla luce delle sue esperienze teatrali e della sua "patina" televisiva. La sua grande ironia è poi fondamentale per accompagnare la narrazione di argomenti che inevitabilmente possono risultare "duri". C'è poi un altro aspetto, la nostra compagnia ha intrapreso un percorso che non si può certo definire "accademico" e un profilo poliedrico e potente come quello di Yamada è in linea con il nostro pensiero: parliamo di una stand-up comedian con grandi capacità teatrali, che ha voluto fortemente avvicinarsi al progetto.
Progetto che vanta ormai numerose repliche, come ha risposto il pubblico?
Direi in modo molto positivo: lo spettacolo costringe gli spettatori a rimanere sempre "connessi" e "sul pezzo", diventando a loro volta i protagonisti assoluti in un dialogo costante anche con il resto del pubblico presente. Una cosa che mi piace sottolineare è che, essendo un lavoro molto "sui generis" si presta ad essere portato in scena anche in contesti non teatrali come ad esempio una piazza, e questo nel tempi ci ha permesso di intercettare anche persone che abitualmente non frequentano il teatro, e questo è un aspetto assolutamente positivo.
Un'ultima battuta, cosa vorrebbe che il pubblico si portasse a casa dopo aver assistito a "La più grande tragedia dell'umanità"?
Chiaramente l'intenzione non è quella di insegnare qualcosa, ma di lasciare qualche utile spunto di riflessione. Alla fine quello che emerge è una "sconfitta collettiva", con i presenti che realizzano di essere stati coinvolti in un meccanismo di cui sono diventati inconsciamente complici. In sintesi, l'obiettivo è quello di trasportare il pubblico in una specie di "inciampo teatrale" che porta a riflettere su aspetti della quotidianità che, anche se magari non apprezziamo, non possiamo evitare. Se questo "cortocircuito" tra realtà e finzione - che suscita domande costruttive - va a buon fine, possiamo dire che la missione è compiuta.