"Quando ti capita di parlare con Ray Charles poi puoi anche appendere il microfono al chiodo", l'intervista a Gabriele Biancardi nella storia del festival di Sanremo
Un conduttore deciso, disinvolto e spigliato, ma sempre rispettoso e mai invadente. Ventotto anni al microfono per raccontare i protagonisti e le comparse di Sanremo

TRENTO. Ha iniziato con i Pooh. Non si è fermato Pooh. Ventotto – dicasi 28 – i “suoi” anni di Sanremo. Anni al microfono per monitorare protagonisti e comparse proiettandoli via etere dalla Riviera alle montagne trentine. Ventotto anni in trasferta: festivaliera. Forse non abbastanza per il Guinness dei primati perché i Luzzato Fegiz e qualche altro Matusalemme da sala stampa del festival disquisivano di canzonette e affini fin dai tempi in cui l’Italia intera ringraziava per i fiori della Pizzi e s’acutizzava il mal di Villa.
Eppure, anche senza concorrere ad alcun record Gabriele Biancardi può menare il vanto di una presenza intrigantemente longeva “fuori” dal festival e al tempo “dentro” il festival.
Angelo De Tisi, il “fu” patron di una Radio Dolomiti che trasformò il Trentino in un abbecedario popolare di dediche e richieste, gli concesse di vestirsi da “inviato” a Sanremo. Voleva, doveva, raccontare tutto quel che si poteva raccontare via etere. Vedeva lungo l’Angelo dolomitico che dal bugigattolo microfonato di Ranzo aveva spostato l’ambaradan famigliare della radio, pionieristica, a Trento.
E vedeva lungo anche quel prototipo di conduttore, il Biancardi appunto, che con gli anni divenne indubitabilmente un conduttore di peso. L’esordio di Radio Dolomiti a Sanremo, l’esordio di Biancardi, pare sia stato il frutto di un patto a patti chiari: poca spesa e tanta resa. Insomma, Gabriele poteva mettere il suo sogno di allora in valigia con la promessa di “mangiare poco e albergare, semmai, in strutture da tregenda”. Volendo ricamare si può dire che fu l’incontro tra due mezze follie.
L’editore – De Tisi – dava importanza filosofico imprenditoriale all’essere primi in qualcosa. E Biancardi è stato fin da virgulto radiofonico un caso raro di impertinenza vocata però all’eleganza (e perché no, all’intelligenza). E cioè un conduttore deciso, disinvolto, spigliato tuttavia sempre rispettoso. E non invadente. In una parola, che nella fattispecie è pure una dote, simpatico.
E’ così che è cominciata. Ed è così che è andata avanti, per i 28 anni di cui sopra. Ventotto anni che sono più della metà dell’anagrafe attuale di Biancardi: smagrito nel fisico, non nello spirito. Ventotto anni ai quali ne vanno aggiunti un’altra decina di radio – sempre la stessa – per dedurre che il microfono può trasformarsi da strumento tecnico a protuberanza anatomica. Un unicum.
Nel 1990, dunque, Gabriele Biancardi porta Radio Dolomiti a Sanremo. Vai su Wikipedia perché anche i ricordi di un dee jay possono sbiadirsi e scopri che a presentare allora c’era Johnny Dorelli (mitic) insieme alla desparecida, (per poi riapparire berlusconiana, ma questa è altra ed inutile storia) Gabriella Carlucci. Scopri ancora che a Sanremo tornò dopo 10 anni l’Orchestra. E che, soprattutto, c’erano i cantanti stranieri (e che cantanti) a duettare con gli italici in uno stridore di carisma.
Riscopri, inoltre, che i Pooh quell’anno erano 'Uomini soli' ma in compagnia dell’intera nazione. Che li fece trionfare. Ebbero anche una compagna d’eccezione: Dee Dee Bridgwater, una voce un’anima, che fece innamorare di più di quanto non riuscì agli “Amori” di un’improbabile accoppiata tra Toto (dove è finito) Cotugno e nientepopodimeno del mitico (che ci faccio qui?) Ray Charles.
Tra tutto questo e una montagna d’altro – comprese le amenità nazionalpolari che fin dagli Assiri accompagnano il festival, c’era il Biancardi. Era lì – sintetizza con efficacia – con la sensazione del disequilibrio da “montagne russe”. Spirito d’avventura, si potrebbe tradurre. Sì perché era un’avventura all’insegna dell’imprevedibile ma pure del divertente la caccia quotidiana all’intervista, al frizzo, al lazzo e perfino al cazzeggio in un festival che era “geologico” quanto a mezzi tecnologici.
“Di corsa, carbonari o quasi – dice Biancardi - da una stanza d’albergo all’altra. Mezzi anteguerra, improvvisazione al potere tra nastri che s’inceppano e microfoni che gracchiano. Ma che sballo. E che nostalgia per la normalità di un Sanremo che i cantanti vivevano con molto meno stress e nel quale anche noi nulla - potenti potevamo trovare la gloria della soddisfazione”.
Ne avrebbe tante di storie di raccontare il Biancardi. Ventotto anni di festival fanno migliaia di incontri con i big veri o presunti. Migliaia di interviste: un’enciclopedia di parole nell’enciclopedia della musica. Qualche bel numero di rapporti avviati e poi coltivati negli anni – quasi amici- anche nelle successive frequentazioni degli studi trentini di Radio Dolomiti.
Ma anche per un conduttore navigato quale è Biancardi gli incontri non sono tutti “routine” e le interviste non sono tutte lavoro. “Beh, quando ti capita di parlare con Ray Charles, e mica per un secondo, poi puoi anche appendere il microfono al chiodo. Non farai la storia ma per quel che intendi per musica, per qualità ed emozione, sei a contatto con la storia. Un privilegio”.
Ecco, un privilegio. Gabriele Biancardi lo vede così il suo costante peregrinare annuale nella settimana del festival di Sanremo. “Tu chiamalo, se vuoi, lavoro – sogghigna – ma la mia è stata ed è una fortuna. Frenesia e insonnie, certo, ma comunque fortuna. Una fortuna che oggi va in diretta per tutta la durata del festival. Che oggi è più comoda perché insieme ad altre tre radio nazionali dividiamo uno studio all’avanguardia dove passano tutti. Ma inutile girarci attorno: ho fortuna. E poco conta che me la sia guadagnata cercando di fare il mestiere con passione ed onestà”.
Questo voleva essere un pezzo su un personaggio. Una curiosità. Rischia di diventare un trattato antropologico. Ma in fondo la cosa non va male. Parlando con Biancardi nel tentare un impossibile riassunto di 28 anni sanremesi si focalizza, più del resto, il cambiamento. Quello della società e, di conseguenza, quello del festival.
E così capita di accennare a come la mastodonticità progressiva di Sanremo – Biancardi docet – abbia messo all’angolo spontaneità e freschezze. “Oggi – spiega Biancardi – i cantanti cantano e subito si barricano in una cura maniacale di voce ed immagine. Una volta bagordavano tra loro e anche con noi poveri cristi del microfono: le session nei locali erano il vero festival, altro che Ariston. E tanto per dirne una, quel matto di Francesco Salvi, quello del tormentone sull’auto parcheggiata di Esatto, mi portava ogni mattina alle 8 su un campo da tennis”.
Ne uscivano di ogni , anche di pettegolezzi. “Oggi – dice ancora il nostro - anche attorno al più scarso degli scarsi c’è una protezione che nemmeno il Papa…”. Ma Biancardi non è più uno del mestiere. E’ il mestiere. “Quando vengono nella postazione radio tutto dipende da te. Se ci fai la cosa non funziona. Se ci sei, appassionandoti e rispettando anche l’ospite meno famoso, il tuo lavoro ha un senso”.
Un lavoro, la cronaca quotidiana dal festival, che oggi per Biancardi e per la sua partner, Francesca Bertoletti, è fatica sì (dalle 8 alle 21 si parla cercando di non straparlare), ma in surplace. Pool di radio, scambio di favori, aiutini reciproci: un divertimento che cresce – tanto per restare all’oggi – quando si prestano all’intervista i “nuovi big” internazionali come la fischiettante Pergolizzi, (Lp) e tanti altri.
Ma la Sanremo di Biancardi è anche un occhio che negli anni e nell’esperienza si è fatto più attento e più critico. Il pubblico, ad esempio. “Quelli delle prime file all’Ariston – spiega – sono cartonati in bella e spesso scollacciata posa. Poi ci sono quelli in mostra, piazzisti d’ego ad uso di telecamera, esibitori degli status symbol d’oro e brillanti, magari taroccati e magari con le rate ancora da pagare. Poi gli urlanti, che stanno più fuori che dentro il teatro. Lì dove imperversano i sosia dei famosi che elemosinano un po’ di protagonismo per non tirarsi un colpo. Vite grame, ma pur sempre umanità”.
Biancardi, per la cronaca, all’Ariston non ha mai messo piede. “La vita è fuori – dice – così come in molti casi è fuori lo spettacolo”. Ma occhio, per Biancardi il festival non si tocca. E questo nonostante un ‘età matura in cui dopo aver scritto un testo teatrale ad alta sensibilità femminile s’è dato pure alla scrittura romanzata con un libro – 'il mio nome è Aida' (la nonna) – che ha meritato i consensi fin qui ricevuti. Biancardi e Sanremo, non è stufo nemmeno un Pooh? “Ma no, è l’Italia. E in fondo è nonostante tutto una gara canora. Mi stufano, anzi mi irritano, quelli che polemizzando biecamente sul festival cercano di raccattare un voto, la polemica scema e ipocrita sulle cifre. Mi stufano quelli che da sempre hanno la puzza al naso e poi lo vedono di nascosto. Eccetera”. Insomma, non lo sentiremo mai dire “Non se ne può Pooh”. Ed è giusto così.