La storia di Quintino, l'ex partigiano che a 93 anni vive nel maso senza elettricità e acqua calda, il documentario di Gabriele Carletti al Trento Film Festival
'La scelta di Quintino' è il documentario girato dal noto giornalista Rai selezionato nella sezione 'Orizzonti vicini' nella kermesse al via dal 27 aprile al 7 maggio. Carletti: "Dalla tenacia alla solitudine, passando per l'amore che non ha età, neppure a 93 anni. Mi sono lasciato sorprendere e spiazzare da Quintino"

TRENTO. Il meglio delle proiezioni legate alla montagna. Una selezione che ha coinvolto oltre 600 proposte e alla fine sono rimasti solo 118 film provenienti da 32 paesi e 22 pellicole in concorso. Questo riassume l'edizione numero 65 del 'Trento Filmfestival', pronto come sempre e più che mai a appassionare pubblico e critica dal 27 aprile al 7 maggio. "Un'attesa trepidante, una sensazione come non mi capitava da tanto tempo. La responsabilità era tanta e stavo già preparando un piano 'B' per ripagare la grande disponibilità di Manuel Morandini e Graziano Bosin (i cameraman e montatori), ma poi è arrivata la selezione", queste le parole di Gabriele Carletti, noto giornalista della Rai trentina e regista di 'La scelta di Quintino', un documentario selezionato nella sezione 'Orizzonti vicini' della kermesse del capoluogo.

Gabriele Carletti, classe 1980, nato a Monte S. Vito nelle Marche, da otto anni a Trento senza rimpianti, sveste per un momento i panni del giornalista per passare dall'altra parte della barricata in qualità di regista. Il documentario sarà proiettato il primo maggio alle 17.15 (cinema Modena) e il 5 maggio alle 15.15 (cinema Modena). "E' un'esperienza coinvolgente e una storia unica - aggiunge - Quintino è un ex partigiano comunista e sua figlia a riguardo mi ha raccontato l'aneddoto di quando sfilava da solo per la Val di Fiemme con un asinello e la bandiera rossa. E il caso ha voluto che la prima proiezione sia proprio il primo maggio: così eccezionalmente scenderà a Trento accompagnato dalla figlia Margherita per assistere a questo lavoro".
"Avendo conosciuto la città, dico poveretti: scendere di corsa dall'ascensore", racconta Quintino nel trailer all'interno del suo maso tra i boschi a 4 chilometri da Castello-Molina di Fiemme, ma il suo non è un vero eremitaggio e il documentario descrive una giornata in sua compagnia.
Quintino Corradini ha scelto di vivere con quello che gli hanno lasciato i nonni e dice che la città lo ucciderebbe. Resiste per tenere viva la memoria dei compagni partigiani impiccati e per ricordarli ha elevato in cortile un personalissimo monumento ai caduti: l'albero che parla. E' un personaggio controcorrente e riflessivo, che non rinuncia ai suoi ideali nati dopo la Resistenza.
Nel corso delle riprese mi sono lasciato sorprendere e spiazzare: Quintino ha affrontato diversi argomenti, tanti tabù sono caduti e sono emerse molte tematiche attuali, dalla tenacia alla solitudine, dall'eutanasia all'amore che non ha età, anche per un uomo di 93 anni.
Questa è la grande differenza tra un servizio televisivo e questo documentario: nel primo caso la voce è un filo conduttore, mentre nel secondo è lo spettatore che deve cogliere le connessioni tra le immagini e il personaggio. Lasciarsi emozionare e sorprende da quanto si vede e da cosa si ascolta.
Come hai conosciuto questo novantatreenne?
Questa vicenda mi è stata segnalata da Beatrice Calamari dell'Apt Val di Fiemme per un servizio in Rai. In quell'occasione ho realizzato un pezzo 'nazionale' sulla storia di Quintino, che a 93 anni vive in questo maso ad Arodolo. Allora era estate e il paesaggio bucolico, ma l'anziano trascorre in quel luogo anche l'inverno, senza energia elettrica e senza corrente. Questo aspetto mi è rimasto dentro e mi si è accesa una lampadina. Mi piace raccontare storie e il giornalismo deve avere anche una funzione livellatrice, come scoprire e presentare figure lontane dalla luce dei riflettori. Emozione e spontaneità sono le parole chiave.
Hai studiato giornalismo a Perugia e ti sei laureato in scienze della comunicazione. Poi collabori per Tg2-Storie e Porta a porta. Com'è stato il salto dietro la telecamera?
Ho cambiato angolatura e visione rispetto al servizio televisivo. Il passaggio da giornalista a regista non è naturale e strutturare un documentario non è immediato. Certo, in questo senso i miei studi mi hanno aiutato e conosco alcuni elementi cinematografici, il resto si impara e si approfondisce sul campo. I tempi sono più lunghi e l'imprevisto sempre dietro l'angolo.
Dopo il primo servizio, sono ritornato in Valle di Fiemme prima a novembre e poi a dicembre per aspettare i primi fiocchi di neve, ma alla fine ho dovuto aspettare metà gennaio per la prima timida nevicata, quanto basta per coprire i pannelli fotovoltaici e mettere fuori gioco l'energia elettrica. Le riprese sono durate un paio di giorni, mentre il montaggio e la sceneggiatura circa una settimana dopo un lungo lavoro di rifinitura. Il progetto è quello di trovare altre opportunità in futuro per mettermi ancora in gioco come regista, senza dimenticare la possibilità di porrtare in giro questo documentario.
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