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Il Trento Film Festival si tinge di rosa, le registe trentine protagoniste tra storie di omosessualità, nuove generazioni e cambiamento del territorio

Le filmmaker Anna De Manincor e Cecilia Bozza Wolf presentano nella sezione 'Orizzonti vicini', due film, due generi differenti, le accomuna solo il legame d’origine, appunto trentino

 

Il film 'Vergot' di Cecilia Bozza Wolf
Di Alda Baglioni - 03 maggio 2017 - 12:42

TRENTO. Donne, registe e trentine doc. Per certi versi una novità, che il Trento Film Festival ha subito messo in evidenza. Due filmaker trentine presentano nella sezione 'Orizzonti vicini', due film, due generi differenti, le accomuna solo il legame d’origine, appunto trentino: sono Anna De Manincor e Cecilia Bozza Wolf.

 

Partiamo dalla più giovane, Cecilia Bozza, regista e direttore della fotografia, presenta al Trento Film Festival una storia per certi versi ‘noir’, dopo il positivo esordio all’edizione dello scorso anno.

 

Racconto coraggioso, contrapposizioni culturali tra città e vallate, fissate sullo schermo con una sceneggiatura volutamente fragile, che parla di omosessualità, forse mai esplicitamente ostentata, con un plateale bacio gay, subito dopo l’inizio del racconto scandito da immagini di un gioco empatico nell’acqua dei due fratelli protagonisti.

 

Un lavoro di Cecilia Bozza giustamente provocatorio, ostico, che irrompe nelle problematiche familiari di avere un figlio diverso, in un nucleo tradizionale periferico e montanaro.  

 

'Vergot', dal titolo si capisce che tutto sarà parlato in dialetto, con significati di varia interpretazione, quel ‘qualcosa’ – appunto ‘vergot’ – che si presta a suscitare interrogativi. Storie di giovani che hanno grossi problemi con la propria identità. Ragazzi fragili che si scontrano con una vecchia generazione, Lupo il padre, il figlio maggiore Alex, suo fratello ventenne Gim, il più introverso e fragile.

 

Hanno una madre assurda, figura mai ripresa dalla telecamera, ma ossessiva nella sua invisibile presenza; una sorta di fantasma che si aggira tra le mura domestiche, lasciando enigmatici messaggi scritti su fogli di carta. Poi c’è Gim, giovane ‘fuori dalle regole’, che cerca di convivere con fatica la sua diversità omosessuale. Il mondo rurale che lo circonda non lo accetta, specialmente suo padre. Anche Alex ha grossi problemi. Amicizie difficili, tra alcol e incomprensioni, la sbornia spesso come unica compagnia.

 

Un film che parla di uomini soli, l’unica certezza la proprietà e i campi da coltivare, tra i frutteti e vigneti, incastonati tra pendii porfirici, praticamente in alta val Cembra.

 

Un lavoro coraggioso quello della giovanissima regista Bozza, che potrebbe essere un punto di partenza per approfondire i problemi giovanili, mai così esplicitamente presentati al Trento Film Festival. Perché qualcosa (vergot) bisogna pur fare. Del resto, Xavier Dolan, il canadese poliedrico enfant prodige del cinema alternativo, insegna.

 

Un gradito ritorno poi è quello della regista Anna De Manincor, nota per le sue performances artistiche trentine e alla Biennale di Venezia, che alla kermesse trentina presenta 'La ville engloutie'.


La scena iniziale è di repertorio, a colori e documenta l’esplosione di un edificio. Immagine subito stravolta da un repentino cambio cromatico, il bianco e nero che come un fiume in piena cambia ogni percezione. Una messa in scena essenziale, un uomo di spalle che cammina lungo il fiume, voce fuori campo. Sequenze che hanno come protagonisti del ‘doc’ il fiume, sentieri incolti immortalati da suggestive carrellate, donne che si aggirano fra detriti di edifici abbandonati, l’acqua, l’alluvione.

 

L’edificio esploso era quello della Kodak, l’industria che produceva pellicole cinematografiche in tutto il mondo e che ha dovuto chiudere  per il passaggio dall’uso di pellicola sensibile alla registrazione digitalizzata delle immagini.

 

Interviste ad uomini che hanno lavorato in Kodak, dimostrano che l’industria era una presenza fondamentale nel territorio, sia di giorno che di notte, perché sempre illuminata, caratterizzando il paesaggio di Chalon, lungo il fiume Saone, dipartimento della Loira, verso la Borgogna.

 

Quando l’industria ha chiuso i cancelli, ha deciso di distruggere anche le strutture, devastando gli edifici con due esplosioni, per cancellare la sua presenza. Perresettarela sua stessa immagine, dopo quasi un secolo di produzioni che consentivano di custodire ricordi visivi, documentiper non dimenticare’.

 

Un ex dipendente ricorda ancora, dopo quarant’anni, il rumore e l’odore dell’insediamento industriale. Il fiume è torbido, sul greto sono rimasti residui inquinanti. E’ da qui che ci si confronta con un territorio, in continua trasformazione.

 

Un documento che pone degli interrogativi. Il digitale ha ucciso la pellicola sensibile alla luce, ma il bianco e nero morirà mai? Ci saranno sempre appassionati di analogico (uso di pellicole e rullini fotografici, da sviluppare in camera oscura) o le nuove generazioni non sapranno nemmeno che esisteva? Le trasformazioni del territorio sono sempre negative o la natura potrebbe convivere con le scelte dell’uomo in armonia?

 

Intensa la fotografia in bianco e nero di Roberto Beani. Il bianco e nero ci mostra oggetti che sembrano sculture, tra archetipi industriali, montacarichi e gru che si stagliano nella loro suggestiva cromaticità bicromatica. Le carrellate ed i piani sequenza riportano ai documentaristi del passato, facendo rivivere luoghi ai margini della storia. Rimangono solo le tracce di vite trascorse, in questo lavoro assolutamente rigoroso della De Manincor.

 

Chalon sulla Saone, un fiume, un tuffo di un bambino, un salto nel presente, costruito e voluto dalle scelte degli uomini.

 

Questo è il settimo film della serie Temporary Cities, ritratti di città in piccole aree che stanno affrontando un processo di trasformazione.

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