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Amedeo Minghi a Trento: "Tante promesse, ma la nostra generazione ha fatto, purtroppo, tanti danni"

L'artista romano, assente dal capoluogo dal 1994, si è esibito all'Auditorium Santa Chiara. Il melodico: "La mia presenza su un palcoscenico è legittimata unicamente dall’esistenza di un pubblico che ha apprezzato il mio viaggio musicale"

Amedeo Minghi
Di Christian Giacomozzi - 17 marzo 2017 - 19:50

TRENTO. "In tanti mi hanno aspettato dopo lo spettacolo. Sono tutti qui. Avremmo potuto fare un concerto anche dopo quello ufficiale, andando avanti ad libitum. La postilla al mio ultimo lavoro era 'Le vedremo parlare, cantare, ballare, suonare, vivere' e questo è successo", così Amedeo Minghi commenta l’accoglienza del pubblico trentino nei confronti del suo concerto 'La bussola e il cuore', con cui l’artista romano ha festeggiato i suoi cinquant’anni di carriera e che ha fatto tappa sabato 11 marzo alle ore 21 all’Auditorium Santa Chiara di Trento, dopo aver toccato molte altre città italiane (da Foligno a Milano, da Torino a Gallipoli).

 

Ancora qualche altra puntata nelle prossime settimane (Asti, Mestre, Napoli e Gaeta), poi la pausa estiva e in autunno di nuovo in viaggio, verso quelle regioni (come Veneto, Toscana ed Emilia Romagna) che non sono state toccate in questa prima fase. E in effetti erano un centinaio le persone che hanno atteso con impazienza dopo la sua esibizione il Maestro, chi per una fotografia, chi per un autografo, chi per omaggiarlo di un pensiero, chi per scambiare un abbraccio o una battuta: e per tutti c’è stato spazio.

 

Il rapporto stretto tra pubblico e artista lo si è respirato fin dall’inizio dello spettacolo: dopo aver aperto la serata sulle note della sua '1950', che ha commosso non pochi spettatori, l’artista ha ricordato come la sua presenza su un palcoscenico sia legittimata unicamente dall’esistenza di un pubblico che ha apprezzato il suo viaggio musicale, lo ha incoraggiato e accompagnato negli anni. A seguire i brani della sua carriera (da 'Decenni a “I ricordi del cuore', a 'Cantare è d’amore' passando per 'Notte bella magnifica'), che si sono alternati con i pezzi inediti dell’ultimo disco ('Pensando a te', 'Com’è bello il mondo', 'Verde è la speranza', scritta con Mogol, 'Gente sul confine') e le 'Mappe', assolute rarità (come 'Una chiesetta senza croce e senza Dio'), brani composti agli esordi del suo percorso e rifiutati allora dalle logiche di mercato e delle case discografiche (come la storica 'Ricordi', "eccellenza italiana ceduta ai tedeschi", ha detto Minghi), in cerca ora di una loro riaffermazione e di una loro dignità all’interno di un vasto repertorio.

 

Sono trenta i brani che ha interpretato il melodista, per più di due ore di spettacolo. Sul palco, assieme a lui, due giovanissimi artisti, Martina Cenere e Michelangelo Nari, poco più che ventenni, che hanno accompagnato con la voce e con la danza molti successi, rivelando doti spiccate. "Tantissimi giovani d’oggi - spiega Minghi, raccontando le fasi del casting che l’hanno portato a selezionare i due ragazzi - hanno talenti e capacità infinite, in attesa di essere espresse: a noi il compito di aiutarli". Non sono mancati, infatti, a margine della scaletta, i momenti di dialogo e di riflessione con gli spettatori: momenti che hanno fatto emergere un’immagine profonda dell’artista, diviso tra disillusione e speranza.

 

"La nostra generazione - dichiara l'artista rivolgendosi a una platea composta in prevalenza da gente adulta - ha fatto purtroppo tanti danni. Ha promesso di cambiare il mondo, mentre ha lasciato in eredità alle nuove generazioni una realtà ancora di più allo sfascio. Eravamo quelli che protestavano, che andavano a Woodstock, che portavano i capelli lunghi: ma per cosa? Anch’io ho portato la coda finché ho potuto, poi ho capito che era meglio tagliarla". Un Minghi disilluso, ma non pessimista: "Sono cambiate tante cose negli anni e di alcune esiste testimonianza nelle mie tracce. Quando ho cantato 'Un uomo venuto da molto lontano', per Giovanni Paolo II, mi rivolgevo solo a un pontefice, che ora invece è diventato santo. Ma non so quanto del contenuto di quella canzone sia ancora valido oggi e abbia senso per chi ascolta. Il popolo che grida: 'Noi vogliamo Dio' c’è ancora?".

 

Ma il futuro non deve essere necessariamente nero: "Tenebroso? No, ma sicuramente velato". A guidare i passi incerti dovrà essere l’amore, innanzitutto per le piccole cose che ognuno compie nella sua quotidianità, tradotto nel rispetto per chi soffre, perché – ha affermato toccando il delicato tema del confine – "la disperazione non ha etnia".

 

Un Minghi nostalgico, dunque, ma indubbiamente proiettato in avanti: "Dei quaranta brani inseriti nell’ultimo progetto, trenta sono inediti e nascondono i semi di altri progetti futuri", tra cui, pare, un’incursione nel mondo del musical. Ma saranno i mesi a venire a delineare meglio la fisionomia di questo futuro. Futuro che tuttavia poggia su un solido passato: di qui la difficoltà ad abbandonare il palco senza aver presentato alcuni pilastri della sua produzione, come 'L’immenso' e 'La vita mia', reclamati a gran voce dal pubblico.

 

Amedeo Minghi mancava da Trento dal 1994, anno del suo ultimo concerto nel capoluogo trentino. Purtroppo questa assenza lunga ventitré anni non ha fatto registrare il tutto esaurito nella sala dell’Auditorium: "Anche nel mondo della musica le cose vanno così, non c’è da sorprendersi. La mia generazione è stata tagliata fuori dalle playlist delle radio: ma, d’altronde, le stesse radio sono in gran parte soppiantate dai computer. Tuttavia sono convinto che la miglior pubblicità sia il pubblico: diffondendo la notizia di casa in casa, di persona in persona, sono sicuro che la prossima volta verrà anche l’altra metà del teatro. Perché a Trento tornerò".

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