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''La trasparenza dell'ombra'' in mostra all'Hortus Artieri per indagare la Vanitas contemporanea

In vicolo dei Birri, una piccola stradina che sfocia su piazza Duomo, c'è un piccolo scrigno dell'arte e della cultura, l'Hortus Artieri. Fino al 10 dicembre al suo interno è allestita la mostra delle opere di Carlotta Brunetti, Mauro Cappelletti e Paolo Minioni

Pubblicato il - 05 dicembre 2017 - 09:36

TRENTO. In vicolo dei Birri, una piccola stradina che sfocia su piazza Duomo, c'è un piccolo scrigno dell'arte e della cultura, l'Hortus Artieri. Fino al 10 dicembre al suo interno è allestita la mostra delle opere di Carlotta Brunetti, Mauro Cappelletti e Paolo Minioni

 

Dallo spazio invisibile trattenuto nelle rappresentazioni delle Vanitas, al riflesso della bellezza che si perde nello sguardo languido del suo Narciso, alla meraviglia degli abiti indossati dagli eroi delle favole, questa terza riflessione sulla Vanitas contemporanea chiude idealmente un lungo dibattito di riflessione sulla frammentarietà del contemporaneo e l’effimero concetto della bellezza nella rappresentazione che ha caratterizzato l’attività dell’Hortus Artieri.

 

Le opere di Carlotta Brunetti, Mauro Cappelletti e Paolo Minioni interpretano ancora una volta lo spazio e si pongono come punti di interrogazione per gli appassionati dell’arte e per coloro i quali desiderano confrontarsi con i linguaggi dell’oggi. Dall’installazione, alla pittura, alla fotografia ancora un volta gli artisti danno segno di sapiente meraviglia nell’affrontare le difficili sfide per definire e tradurre i valori e i “sentimenti” di ciò che respiriamo.

 

È davvero un vestito di piume quello che si appoggia sul vecchio tavolo. Sono piume che apparentemente sono scese dall’alto e sono rimaste impregnate, come per incantesimo, dal profumo della stoffa e sono diventate parte dell’ordito.  

 

Parlano di una bellezza che non vuole sfiorire, il cui sguardo accarezza la superficie morbida e sottile. Diventano gioielli di luce e metallo, come scaglie, leggermente sovrapposte, alludono a presenze di spazi pieni e spazi vuoti. Pochi oggetti sotto al tavolo restituiscono la dimensione di realtà quotidiana.

 

Elementi semplici, simboli terreni dell’effimero, raccontano di una favola che possiamo solo immaginare attraverso i nostri ricordi di quando sentivamo parlare di mondi abitati da principesse, mostri e foreste. L’abito è quello di Carlotta Brunetti, artista che lavora usando la scultura come mezzo espressivo.

 

Lo fa con le forme semplici della geometria e con gli elementi della natura: la terra, l’acqua, il vento, il fuoco, il sale e da qui i pigmenti. Il suo lavoro indaga l’abitare e si interroga sulla forma naturale del paesaggio e il suo essere addomesticato dall’azione dell’uomo. Grande viaggiatrice, esplora luoghi fisici e spazi della mente, andando a ritrovare gli archetipi e restituendoli, a chi osserva, come scrigni della memoria della Terra.

 

Come un segno che esce dall’ombra, una presenza silenziosa e quasi timorosa di comparire, è quello che fuoriesce dalle tele e dalle carte di Mauro Cappelletti. Dagli anni settanta, artista impegnato a riportare “la pittura a dipingere se stessa”, Mauro Cappelletti, attraverso una pittura prima analitica poi astratta, concentra nel segno - direzionale, fluorescente, taglio di luce, presenza pulsante – la propria attenzione per esplorare tutte le possibilità fisiche del dipingere.

 

La preparazione del supporto pittorico, l’amalgamarsi dei pigmenti e delle resine, il segno, come unica presenza pronta a scomparire in favore degli altri elementi, spingono l’artista ad invitare chi si sofferma, di fronte in particolare ai suoi ultimi lavori, a spogliarsi di tutti i riferimenti possibili per far sì che la pittura parli di se stessa, lasciando affiorare l’incanto fatto di ombre, di aloni, di aperture che sono zone di oscurità ma anche di luce.

 

Da rigorose e geometriche suddivisioni degli spazi, ad una più libera e armoniosa sospensione del colore fino ai recenti monocromi, l’operare dell’artista si concentra sempre più intorno ad una visione centripeta dell’opera: spazio privilegiato nel quale ogni elemento si compone di una silenziosa spiritualità.

 

Le polaroid di Paolo Minioni raccontano storie. Sono piccole e accurate descrizioni, quasi didascalie, come suggeriscono le dimensioni ridotte delle lastre, a se stanti. Sono resti loro stessi, rimasugli, di oggetti abbandonati che possiedono però ancora una aura pulsante.

 

Avrebbero storie da dire, cose da raccontare, se solo il nostro occhio fosse capace di osservare e di cogliere il testo sotteso, allo spazio vuoto e alle piccole fessure che fratturano la superficie degli oggetti, o in ciò che resta della piccola pianta che non vuole morire, o nella terracotta dei vasi vuoti che trasuda ancora di vita. Gli oggetti, sono quelli “di una volta”, sembrano appartenere a tempi lontani.

 

Le piante appartengono, invece, alla noncuranza di chi abbandona. La fotografia è fatta di ombre. Ombre che disegnano cumuli di terra e che dettano i profili del paesaggio. Ombre che rendono visibili i contorni degli oggetti, trattati dall’artista come fossero persone, suggerendo una fragilità interiore alle cose che in realtà rappresenta la loro forza.

 

Ombre che alludono a quegli sfondi caravaggeschi dai quali usciva, come gettata in faccia all’osservatore, senza alcun pudore, la realtà. Quella realtà fatta di un singolo attore (oggetto) ora si mostra: vanitas certo, effimera presenza probabilmente, ma soprattutto vittoriosa fisicità che resiste al tempo della propria scomparsa, finché la fotografia sarà capace di mantenerne viva la memoria.

 

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