Zambana Vecchia 60 anni dopo la frana: la rinascita raccontata da chi non l'ha mai lasciata
Nel 1956 una colata di detriti ha spazzato via il paese. Camillo (figlio del sindaco dell'epoca) ci mostra cosa è rimasto di quel centro che per anni ha vissuto “gemellato” con Fai della Paganella. Perché? Per le mucche

Per arrivare a Zambana Vecchia si deve attraversare il ponte “arcobaleno”, una stranezza architettonica dal gusto decisamente alternativo. Questo ponte sembra essere un semplice e appassionato augurio rivolto al vecchio paese, un simbolo di unione che involontariamente rimanda a un immaginario hippy, un po' libertario, reso qui “monumento” propaganda. Per quanto appaia un po' fuori luogo, l'enorme arcobaleno lascia presagire, a ragion veduta, quello che si scoprirà poi essere il nuovo spirito di questo luogo, uno spirito che nasce da una libertà a prima vista quasi anarchica, ma profondamente devota al lavoro nei campi. Questa libertà laboriosa è incarnata dalle costruzioni che oltre il ponte si incontrano (nuove, vecchie, in rovina, riadattate ad ogni uso possibile, trasformate, ristrutturate, usate come stalle o depositi per il fieno) e dal duro lavoro che occupa quotidianamente molti abitanti tra vigneti, orti, meleti, asparageti e boschi. È proprio l'attività rurale ad essere rimasta per decenni l'unico vero centro del paese, a lungo inabitabile, e il motivo del suo mancato totale abbandono da parte di molti che hanno continuato a frequentarlo e vi sono ritornati appena possibile per curare le loro terre.
Zambana Vecchia ha rischiato di essere abbandonata completamente e per sempre. Proprio sessant'anni fa, nell'aprile del 1956, dopo una prima spaventosa frana avvenuta l'anno precedente, il centro storico e la quasi totalità degli edifici furono spazzati via da un'imponente colata di lava fredda formatasi a seguito di piogge torrenziali che ingrossarono a dismisura il torrente Moar trasportando con sé i residui delle frane precedenti. Si formò, così, una colata di fango e detriti che scese lenta lungo la val Manara spazzando via l'intero abitato. Rimasero in piedi solo le scuole e qualche casa posta al di là della collinetta sulla quale ancora oggi sorge la vecchia chiesa di Ss. Filippo e Giacomo. La chiesa durante la frana si riempì di detriti, ma non crollò. L'abitato ai pedi della montagna è poi stato dichiarato inagibile sino al 1993, quando l'inabitabilità fu revocata dopo la messa in sicurezza delle rocce pericolanti, un intervento di grande rilievo ingegneristico. Oggi, entrando in paese lungo lo stradone che dal ponte porta fino alla chiesa, c'è la casa di Camillo, uno dei pochissimi che non ha mai abbandonato Zambana, la visita del paese non può prescindere dai sui racconti. Suo papà era il sindaco del paese prima e durante la frana. Camillo vive qui con la moglie, vicino ai suoi campi. Negli ultimi anni a Zambana Vecchia si è trasferita anche la figlia con la famiglia, attratta dai ritmi di vita più naturali che si possono ancora oggi avere qui: siamo a pochi minuti dalla città, ma lontano dal traffico.

Il bosco alle spalle filtra l'aria che dalla Paganella scende lungo la val Manara e arriva quaggiù fresca e ossigenata. La valle è la naturale continuazione del paese verso la montagna. Prende il nome di Manara dal verbo “menar” il cui significato nell'accezione dialettale è “condurre con una certa fatica”. Infatti lungo la via che segue questa valle fino a Fai della Paganella, si trascinavano fin dal medioevo i tronchi di legna che venivano poi legati assieme per formare zattere. Queste erano condotte lungo l'Adige sino a Venezia e fornivano la legna necessaria per la costruzione delle navi. Fino alle metà del secolo passato, la via era ancora fondamentale per il paese e la sua zootecnia. Camillo racconta che con due giorni di cammino si portavano lungo questa strada le mucche sino agli alpeggi sopra a Fai. Allora ogni famiglia di Zambana aveva lassù una famiglia “gemellata”. Questo perché era utile scambiarsi l' accoglienza, sia per chi saliva agli alpeggi che per chi dalla montagna doveva andare verso la valle e la città. Si dormiva la notte sul fieno e poi si ripartiva.
Per qualche decennio, dagli anni Venti sino alla frana, a sancire il legame tra le due comunità ci fu anche la storica funivia. Passando per i dodici piloni di cemento armato lungo i costoni della valle, essa raggiungeva la montagna. Nel bosco dietro la chiesa si possono ancora oggi visitare le rovine della stazione di partenza. Non lontano dai resti della funivia ci sono poi le cascatelle e le pozze d'acqua trasparente dove una volta ci si lavava l'estate, come li chiama Camillo gli “idromassaggi”. Qui, appena possono, vengono ancora a fare il bagno e tuffarsi i bambini e ragazzi del paese, mantenendo viva l'antica tradizione. L'acqua del torrente è pulitissima perché scende direttamente dalla montagna, tant'è che da sempre è utilizzata per rifornire l'acquedotto. Rientrando verso il paese c'è la vecchia chiesa, l'unica costruzione rimasta in piedi oltre il terrapieno che protegge oggi il paese. Il suo campanile in stile romano gotico, semplice ed elegante resta come monito all'ingresso della valle, mentre la scritta sulla meridiana, per ricordare la semplice e inequivocabile essenza del tempo, recita:“come l'ombra i giorni nostri”.

Tra il campanile e l'imbocco della valle si trova poi un piccolo particolare dosso roccioso, la cui sommità è ricoperta di pini. Qui si celebrava un carnevale molto sentito dagli abitanti. Tutti, infatti, il giorno stabilito, vi si ritrovavano portando con sé cibo e legna per i fuochi. Il culmine della festa, racconta Camillo, si aveva con la giostra dei nomi. Allora, a discrezione di un'oculata commissione, i paesani scelti in coppie si dovevano scambiare i nomi. Avvenivano sempre gli scambi più assurdi e divertenti, alla bella del paese, per esempio, con suo grande imbarazzo, veniva dato il nome dello sciocco del paese e viceversa. E così per tutta la notte si giocava scherzando, senza limiti, su questi scambi identità. Un momento di totale amnistia, dove si dava libera espressione a ciò che nei giorni ordinari non era permesso dire, il tutto in un clima di festa che rinsaldava i legami all'interno della comunità. Questa festa scomparve con il paese dopo la grande frana.
Passeggiando per Zamabana Vecchia si ha oggi la sensazione di trovarsi in un luogo di confine, una terra dal fascino particolare, in piena trasformazione. Senza clamore, piano piano, questo suo status abbastanza unico e la sua posizione privilegiata, sono riuscite a riportare qui molte persone che apprezzano quello che questo paese ha da offrire, in primis tranquillità e un contatto costante con la natura.
Oltre la via principale, superata la vecchia scuola usata come rimessa, purtroppo ancora in abbandono, dopo alcune cascine storiche circondate da orti abitate e ristrutturate, si incontra un edificio che è quasi un monumento: una vecchia pensione che faceva da bar e punto di ritrovo dopolavoro. Fu costruita da alcuni cugini all'inizio del secolo passato. Questi erano ritornati a Zambana dagli Stati Uniti, dove erano emigrati in cerca di fortuna. La casa ha uno stile insolito e ricorda in parte proprio le abitazioni americane che i cugini dovevano aver conosciuto oltreoceano. La somiglianza è palese osservando la sua grande veranda in legno che segue tutta la facciata diventando balconata ai piani superiori. È una costruzione unica che fa da punto di riferimento per l'intero abitato e attira la curiosità di chi la incontra. Usciti, infine, dalla via principale ci sono molte case nuove, con il loro terreni, prati e i loro orti che si susseguono lasciando intravedere quale direzione seguirà Zambana Vecchia nella sua tranquilla rinascita: un ritorno al vivere meno congestionato, qui ancora facilmente perseguibile.
Intanto la nuova amministrazione del sindaco Tasin continua i lavori per migliorare la fruibilità del vecchio paese e sembra che le carte nel giro di vent'anni si siano ribaltate: per chi sta a Zambana il vecchio paese sembra essere diventato un luogo “nuovo” da prendere sempre più in considerazione per il futuro prossimo.