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Quando San Martino era un porto e accoglieva i profughi delle valli

Un viaggio per scoprire la storia di uno dei quartieri più antichi della città che da questa sera torna a rivivere con "San Martino Dentro" 

Di Tiberio Chiari - 12 novembre 2016 - 16:03

TRENTO. Qualche settimana fa ci si era occupati del quartiere di San Martino chiedendosi perché pur essendo in una posizione strategica desti in uno stato di sconfortante abbandono.

Un piccolo rione quello di San Martino alle porte della città, stretto tra il castello, le vecchie cave e via Torre Verde, la cui atipicità va ricercata nella sua storia. Infatti è allo stesso tempo un rione storico e una parte di città anonima, un paradosso. Uno status il suo che lo rende una periferia atipica, una periferia che gode dell'ombra del Castello del Buonconsiglio. Per poter capire cosa è oggi San Martino, un limbo quasi immobile che stenta a trovare una propria dimensione, un quartiere accidioso e svagato, bisogna tornare indietro nel tempo per riscoprire attraverso le sue vicissitudini ciò che ha contribuito a creare questa precaria identità. Proprio la mancanza di identità sembrerebbe oggi non permettere una sua reale e sostanziale rinascita sociale. Nonostante l'impegno di alcuni per rivitalizzarlo sembra rifiutare ogni cura troppo premurosa, come se avesse paura di riprendersi un'anima ben definita dopo che molte gliene sono state sottratte nel corso dei secoli. Un luogo San Martino, si scoprirà, di antiche e recenti diaspore causate da eventi drammatici che hanno lasciato ferite forse insanabili distruggendo pian piano il tessuto sociale di questo sfortunato rione.

 

Il quartiere di San Martino nacque più di mille anni fa fuori dalle antiche mura della città, a ridosso della torre Verde. Questa torre nota in epoca medievale perché sede del dazio si trovava a lato della porta di San Martino appunto, l'ingresso a Trento per chi vi giungeva da nord. Il quartiere si formò attorno alla chiesa, e verso il 1100 si poteva contare un consistente numero di abitazioni. Casupole in legno che accoglievano per lo più artigiani “profughi” dalle valli per mancanza di lavoro che qui si fermavano per iniziare una nuova attività e esercitare la propria professione. Si stabilivano allora appena fuori le mura non potendo aver accesso da subito al mercato interno della città, regolamentato dalle corporazioni e dalle confraternite degli artigiani e dei commercianti che stabilivano severe norme e limitavano i nuovi accessi al mercato cittadino per tutelare le posizioni ormai acquisite.

 

Partendo dal suo primo laborioso nucleo, fatto di case in legno e paglia, con l'aumentare dei traffici fluviali il quartiere iniziò a svilupparsi sfruttando la sua posizione strategica. L'Adige infatti allora disegnava, avvicinandosi a Trento, un'ampia ansa e le acque rallentate lambivano dolcemente le sue mura. Qui in San Martino, fino al 1858 anno della deviazione del corso del fiume, si trovava uno dei due porti di Trento, il secondo era posto alla torre Vanga. Il porto di San Martino era sicuramente il centro commerciale più vivo della città e l'epoca del commercio fluviale fu la più florida per il quartiere. Venne fondata anche, intorno al 1200, una “Scuola nautica” che riuniva zatterieri e padroni di barche. La presenza del porto e dei barcaioli contribuì in maniera decisiva a dare una propria identità e autonomia al quartiere che trasse da questa peculiarità la possibilità di diventare per un certo periodo una parte integrante della città. Il Vescovo infatti fece opportunamente costruire un nuovo cerchio di mura attorno San Martino divenuto ormai strategico . Andarono inoltre nascendo nel quartiere parecchie osterie, necessarie per accogliere e rifocillare zatterieri, contadini, mercanti, boscaioli e viandanti che qui si ritrovavano per scambiare merci e intessere alacremente fondamentali rapporti commerciali. Tutto ciò accadeva mentre i bambini si tuffavano dalle finestre delle case o dai magazzini direttamente nell'Adige e passavano le giornate pescando. Tra gli ospiti illustri di quelle osterie ci furono anche, tra gli altri, il Cagliostro e Wolfang Goethe.

 

Nel 1858 l'Adige fu deviato: su decisione dell'impero Austriaco venia interrotto il trasporto fluviale lungo la valle per sviluppare quello su rotaia. Il fiume all'altezza di Trento fu “raddrizzato” per permettere la costruzione del ponte destinato al passaggio dell'allora nascente linea ferrovia. L'ansa che lambiva Trento si vide prosciugata e divenne la sede di un torrentello scenografico che prese il nome di Adigetto.

 

Il quartiere di San Martino fu allora costretto a mutare l'indirizzo della propria economia brutalmente mutilata: questa andò a concentrarsi verso le cave di porfido della Predara e della Malvasia che ancora si possono osservare visitandolo. Il centro del rione divenne l'ampio spiazzo della cava della Predara, dove oggi si trova l'Hotel Albermonaco. Qui era posto il lavatoio, proprio nel mezzo piazzale, dove le donne trascorrevano la maggior parte della giornata alternando il pesante lavoro di lavandaie, al soldo della vicina caserma austriaca, alle immancabili chiacchierare. I bambini e i ragazzi, organizzati in bande, scorrazzavano liberamente per il quartiere dando vita a violente sassaiole barricati dietro le enormi pietre grezze disseminate ovunque nelle cave.

L'anima più profonda del quartiere si incarnò allora nei “predaròi”: lavoratori destinati a tagliare il porfido nelle cave, in condizioni che oggi si definirebbero quasi disumane. Questi sono divenuti la base identitaria del rione San Martino dopo l'abbandono del fiume. Grazie ad essi anche le osterie del posto continuarono la loro fiorente attività servendo nel dopo lavoro immancabili cicchetti di Teroldego per alleviare la fatica e calmare l'arsura nelle gole, seccate dalla polvere, di chi lavorava nelle cave. Un mestiere quello dei predaròi durissimo, senza pause, nel gelo dell'inverno o sotto il sole inclemente di Luglio, protetti solo dal logoro fazzoletto che si legavano sul sul viso per proteggersi dalle polveri, ma che sicuramente fungeva più da simbolo che da protezione.

Un viaggio nella storia di San Martino

 

Un ennesimo duro colpo il quartiere lo ricevette poi nel 1870. Appena fuori San Martino si trovava un grande piazzale dove la legna, usata per il riscaldamento invernale delle abitazioni dell'intera città, era accatastata. Sin dal medioevo queste pile di legname venivano poste al di fuori delle mura della città per evitare pericolosi incendi al suo interno.

Fu proprio da queste ordinate riserve di legname che partì un incendio violento e indomabile. L'incendio velocemente si propagò nel quartiere e la municipalità decidette allora di sacrificarlo per combattere le fiamme sul limitare delle mura: se il fuoco avesse superato quell'ultima barriera per la città non ci sarebbe più stata speranza. Il vento era forte e i tizzoni ardenti si alzavano nella notte dalle case in fiamme di San Martino verso il cielo per decine e decine di metri. Ci furono anche principi di incendio in città, fortunatamente domati. Quando il vento cessò l'incendio fu spento, ma per il quartiere ormai non c'era più nulla da fare. Le casupole da poco ristrutturate, a seguito della deviazione del fiume, furono completamente arse dalle fiamme e la disperazione e l'abbandono si unirono di nuovo al destino di San Martino. Alla comunità, già duramente provata dalla perdita del fiume, ora, come unico residuo rimasto ad assicurare una sua identità, rimase solo la chiesa. Ma anche per questa era in serbo un tristissimo epilogo.

 

Il quartiere continuò sino al secondo dopo guerra ad essere conosciuto per le sue osterie e i bar, unici punti di svago per il proletariato. A inizio secolo uno di questi divenne famoso perché gestito Da Vittorio e Bruno Marcantoni. Ginnasti dotati di forza straordinaria e grandi abilità acrobatiche si allenavano nella palestra posta nel retro del loro bar, il “bar Palestra” appunto, il quartier generale di questa famiglia di acrobati. I Marcantoni si esibirono nei circhi più famosi d'Europa e furono la spalla immancabile per lo show equestre che Bufalo Bill portò nelle più grandi città del vecchio continente. Il mitico cacciatore per sfruttare le sue abilità di cavallerizzo e tiratore, una volta sterminate tutte le mandrie di bisonti del nord America, diede infatti vita un circo la cui fama divenne globale. I Marcantoni furono protagonisti insostituibili di molti dei numeri presenti nei suoi spettacoli .

 

L'epilogo per San Martino si ebbe sul finire della seconda guerra mondiale. Fu infatti il bombardamento del 13 maggio 1944 che distrusse definitivamente ogni residuo di società all'interno del rione. Gli aeroplani alleati sganciarono un'enorme quantità di esplosivo sulla città che ne uscì devastata. San Martino fu praticamente raso al suolo, uno sfregio che lo rese definitivamente irriconoscibile, pure a se stesso. Chi perse la casa, finita la guerra se ne andò a vivere altrove e molti altri morirono sotto quelle macerie o al fronte. Le vie e le case non esistevano più. La Chiesa, costruita nei secoli con il concorso di tutta la comunità, con le offerte dei fedeli, dei barcaioli, degli zatterieri, dei predaròi, dei locandieri e dei loro ospiti fu colpita pesantemente, crollò e non fu mai più ricostruita.

 

Oggi San Martino si trova ad essere un quartiere sì centrale, ma afflitto da quell'anomia e da quella mancanza di identità che normalmente caratterizzano le periferie più disagiate delle città. Bisogna però ricordarsi che storicamente ha sempre saputo trasformarsi per mantenere intatta la propria singolarità. Dopo le molte sofferenze che la storia gli ha inflitto sembra infine approdato in uno stato di disinteressata defezione dall'impegno di condividere certi valori cari una città la quale in fondo non lo ha mai troppo rispettato né apprezzato. Osservando con attenzione il suo passato si può scoprire come forse il senso della sua ultima trasformazione, quella contemporanea, sia racchiusa proprio in questo suo “atteggiamento” disinteressato. San Martino è sempre stato un quartiere popolare, poco avvezzo alla monotona routine cittadina e oggi, tra il circolo dei Ridicoi Reversi Policarpi, lo storico bar dei Cavai, le sue annuali partecipatissime, sporche e rumorose feste che molti gli invidiano, il variare continuo dei suoi abitanti, le saltuarie occupazioni dei suoi fatiscenti edifici pubblici lasciati marcire impunemente e qualche senzatetto disteso al sole nel parco, mantiene, grazie al suo nuovo spirito un po' anarchico un orgoglioso ripudio a concedersi ancora alle attenzioni dell'opportunista borghesia cittadina, che spesso lo ha tradito o sfruttato, per poter rimanere strenuamente abbracciato ad una periferia la quale invece lo ha sempre rispettato. 

 

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