''L’inferno ci dà la chiave per un'esplorazione del problema del male e la Shoah l'ha creata l'uomo. Il purgatorio? Non è inquietante'', parola della dantista trentina Anna Pegoretti


Ragazzo del 57, giornalista dal 79, troppo piccolo per il 68, ha scansato il 77 ma non la direzione dell’Adige (8 anni 8 mesi e 3 giorni) e la politica (24 mesi in consiglio provinciale tra il 2018 e il 2020)
Chissà cosa avrebbe scritto, l’Alighieri, della settimana di passione che ha portato alla rielezione di Sergio Mattarella. Lui che del bordello della politica molto sapeva e dei partiti molto si appassionava e della sorte dell’Italia assai si angustiava. Oltre al suo concittadino Renzi, quanti ne avrebbe spediti nel suo inferno, dei capitani di ventura di oggi?
In realtà, Dante è una fonte inesauribile di sorprese e di scoperte, oltre ad essere il Maestro indiscusso della nostra lingua (quell’italiano così ricco e sonante che in questi giorni viene banalizzato a Sanremo) e allora è giusto tornare a Dante. Per capire lui e capire noi. Ci aiuta una trentina doc che ha sciacquato i panni in Arno, Tevere e Tamigi e ha perso qualsiasi accento di quassù, se mai l’avesse avuto: Anna Pegoretti, laurea nel 2005 a Bologna, poi dottorato di ricerca a Pisa, poi ricercatrice in Inghilterra, oggi professoressa associata all’Università di Roma Tre, è una delle voci più importanti tra gli italianisti e i dantisti di oggi.
A lei abbiamo rivolto 21 domande sul ’21 di Dante.
Dei tre “luoghi” della Commedia, come migliaia di lettori italiani scolastici frammentari e distratti e incompetenti, ho ricavato queste impressioni: Inferno spaventevole ma spaventosamente eccitante; Paradiso beatissimo ma noiosissimo; Purgatorio inquietante e interessante, se non altro perché quasi tutte e tutti, se poi esiste davvero, finiremo probabilmente lì, a purgare i nostri peccati. Ci può preparare per tempo, al Purgatorio, visto che lei ha scritto un importante libro intitolato “Dal “lito diserto” al giardino. La costruzione del paesaggio nel Purgatorio di Dante”?
Oscar Wilde diceva che avrebbe scelto il paradiso per il clima e l’inferno per la compagnia. Ma il Purgatorio non lo definirei inquietante. È previsto che ci vada la maggior parte degli esseri umani, il che non è una brutta notizia. Jacques Le Goff l’ha definito una delle grandi invenzioni del Medioevo. Il Purgatorio divenne dogma della Chiesa cattolica quando Dante era bambino, riflette anche l’accresciuta partecipazione dei laici alla vita religiosa. Lui la consacra, l’invenzione, in forma poetica. Il Purgatorio è un luogo di speranza comprensibile, il luogo della seconda chance. Molto comprensibile e molto umano. È sulla terra, non è nei cieli né sotto terra. Ci è familiare e risponde a un’esigenza esistenziale, quella di avere sempre una speranza. Nel Purgatorio c’è bellezza nella sofferenza: le pene sono terribili ma è immersa in questa atmosfera serena. Fin dal tredicesimo verso del primo canto c’è il “dolce color d’oriental zaffiro”. Si respira, per la prima volta non è un luogo terribile, non c’è un’aria ostile. Se ne ricorderà Borges, dicendo che forse è il più bel verso del poema. Che si respira di nuovo in Leopardi, “dolce e chiara è la notte e senza vento.
L’anno dantesco 2021, per lei specialista, ha portato una scoperta (anche piccola), una sorpresa, un passo avanti nella conoscenza di questo grande poeta, ma anche di questo grande enigma della storia letteraria italiana ed europea?
Grandi sorprese, no. Era attesa qualche novità sulla “mano” di Dante, la grande chimera di scoprire un autografo con la sua calligrafia, una copia con la sua firma, quella poteva essere la grande svolta attesa da sempre. Non c’è stata, nonostante i pettegolezzi, il microscoop di cui ha parlato il Times. Però gli studi danteschi hanno dimostrato una grande vitalità, persino eccessiva. In questo senso, è stato un centenario più vario dei precedenti, 1865, 1965, il 1921 molto politico e interessante anche in prospettiva trentina… Ma oggi non c’è più solo il Dante cattolico o il patriota, c’è un Dante per tutti. Ha segnato, il 2021, un ritorno forte di interesse agli aspetti biografici.
Su Radio3 lei ha descritto molto bene l’importanza – al canto terzo del Paradiso – dell’incontro di Dante con Piccarda Donati, un’amica di gioventù, sorella del suo acerrimo nemico Corso Donati (capo dei Guelfi neri a Firenze): Piccarda prima monaca poi rapita e sposa per forza ma beata per virtù è anche una denuncia della violenza maschile (“Uomini poi, a mal più ch'a bene usi,/fuor mi rapiron de la dolce chiostra”) e un omaggio (non comune ai suoi tempi) al coraggio delle donne?
Piccarda mi sta a cuore, è un personaggio minore con un ruolo importantissimo. Succede spesso che Dante parli di persone a lui vicine di cui – senza di lui – avremmo perso ogni memoria. Così mette all’Inferno il suo vicino di casa e ci fa incontrare in Paradiso Piccarda, la sorella di un suo amico e di un suo nemico. Piccarda sta lì per Santa Chiara di cui fu seguace. Una figura minore che così diventa gigantesca. Non è banale che sia una persona qualsiasi, non è banale che sia una donna sconosciuta eppure c’erano figure femminili importanti, a Firenze. È la prima beata con cui parla e come la ragazza fiorentina Beatrice è una maestra di teologia che gli spiega la società del Paradiso, la perfetta città di Dio, che è all’opposto della Firenze dei suoi tempi, dove carneficine e faide feroci – quando studiamo a scuola i guelfi e i ghibellini non ce ne rendiamo conto – si compivano crudeli e terribili in mezzo alla città.
Recensendo “Dante - A Life”, traduzione inglese del bestseller di Barbero, sul New York Times il professor Joseph Luzzi dice che bisogna compatire i biografi di Dante, che hanno davanti un abisso archivistico con pochissimi fatti certi su cui ricostruire la biografia del poeta. Da questo punto di vista lei come italianista e dantista è fortunata, avendo un colossale corpus letterario, un’altra montagna accanto alla stessa montagna della Commedia, da leggere e rileggere e capire e ri-comprendere all’infinito. È così?
Tutti facciamo i conti con la biografia di Dante. È una specie di fantasma che ci perseguita. Nulla sappiamo degli anni dell’esilio ma si continua a indagare. Vorrei citare il grosso lavoro di Elisa Brilli e Giuliano Milani, ‘Vite nuove – Biografia e autobiografia di Dante’, di cui si discuterà nei prossimi anni. Ma la nostra fortuna è il testo, la sua verità, l’inesauribile vitalità, che ci consente un esercizio ermeneutico infinito di nuove interpretazioni, e questo per me è un privilegio ma anche una responsabilità. E altrettanto interessante è rileggere l’intero corpus della letteratura italiana nella luce di Dante, la sua inesauribile fortuna tra gli scrittori che, non solo in Italia, l’hanno seguito.
Franco Cardini, sempre recensendo Barbero su Avvenire, ha scritto “Qualcuno ha detto che si fa presto a immaginar l’Inferno: basta guardarsi dentro. Basterebbe replicare che, per farlo, bisogna averne il coraggio: e non ce l’ha quasi nessuno. Qualcun altro ha osservato che è incredibile come Dante riesca, lui uomo del Due-Trecento, a gettare sull’immensità dei cieli uno sguardo che sembra partire dall’oblò di un’astronave: un’esperienza che egli avrebbe potuto avere solo durante una visione, magari mistica”. Qual è il segreto dell’eccezionalità di Dante, secondo lei?
È davvero stupefacente. Non è solo il fatto che Dante racconta cose straordinarie, ma che lo fa in poesia e la poesia contribuisce a rendere straordinarie le cose che racconta. Forma e contenuto procedono insieme. E questo sarebbe stato eccezionale, straordinario anche in altre epoche.
A proposito di Parigi. Leopardi supera Dante, peraltro alla pari con Machiavelli e quasi raggiunto da Boccaccio e Petrarca, per numero di citazioni, nel “Dictionnaire de citations du monde entier” dell’editore francese Le Robert. Per la precisione, la classifica è questa: Leopardi 23, Dante Alighieri e Machiavel 19, Boccace 18, Pétrarque 17. Manzoni resta indietro con solo 8 citazioni. Provocazione all’italianista: l’abbiamo sopravvalutato, che abbiano ragione i francesi?
Non lo sapevo ma non mi stupisce. Per ragioni storiche e culturali, inglesi e americani amano Dante molto di più della Francia laica e illuminista che non impazzisce per diavoli e beati. Ma non siamo noi ad averlo sopravvalutato, semmai è un problema dei francesi.
Che dire invece della celebre definizione di Schlegel, Dante come “padre e fondatore della poesia moderna” con “quest'opera colossale, questo fenomeno sublime nella fosca notte di quell'età di ferro”?
Dante è stato uno dei frutti più straordinari di un Medioevo di cui si ha generalmente un’idea povera e triste, di secoli bui. Un’idea sbagliata. Quell’ampiezza di sguardo era della sua epoca. È stato un periodo di grande vitalità per l’Europa. E di grandi viaggiatori. San Tommaso faceva su e giù da Parigi come se ci fosse già Ryanair. Erano intellettuali viaggiatori e cittadini del mondo: non solo Marco Polo va in Cina, ma è tutto un mondo che viaggia.
La Commedia è anche uno straordinario viaggio nei suoni e nella musica, e nei silenzi e nella luce che risuona. “Un centro di gravità permanente: Inferno XXXIV e la struttura dell’universo” è il titolo di un suo articolo. Anche Battiato è figlio di Dante? Parola di diplomata in violino al Conservatorio Bonporti?
Certo la Commedia è anche un viaggio nei suoni, dal caos infernale fino a incontri straordinari come quello con il suo amico musicista e cantore Casella. Si canta molto, nel poema. Ma è tutta la Commedia che canta. D’altra parte, Dante – che conosceva bene la musica – definisce la poesia come una creazione costruita dalla retorica e dalla musica. La poesia come tessitura musicale essa stessa.
Ho ascoltato la registrazione della sua bella lezione su “Dante tra i filosofanti”, in cui spiega – pur tra i grandi buchi della sua biografia – i rapporti del poeta con i domenicani, i francescani, i “chierici” delle università. Dante, senza grado accademico, resta un laico, un outsider rispetto alle istituzioni culturali. Finché, verso il tramonto della sua vita, tra 1320 e 1321, tra Bologna e Verona, non si comincia a riconoscerlo come “magister”. Ha commentato: “Negli ultimi due anni della vita di Dante stava cambiando qualcosa e chissà che cosa sarebbe successo con la diffusione della Commedia”. Dobbiamo rassegnarci, 700 anni dopo, a convivere con questi buchi, con questi dubbi o questi interrogativi, o la ricerca potrà portarci a nuove scoperte?
C’è sempre la speranza di trovare documenti nuovi, anche perché gli archivi sono pieni di roba che non conosciamo, anche a causa dello stato di abbandono in cui langue il nostro patrimonio archivistico e librario, un vero e proprio peccato mortale per la cultura italiana, che non è fatta solo di quadri, di chiese e di palazzi. Noi abbiamo cose che nessuno ha. A Bologna, per esempio, abbiamo un immenso patrimonio di carte su una città importante tra Medioevo e Rinascimento, e non abbiamo il personale per esplorare questo archivio. È terribile. Trovo che sia un grave deficit di civiltà. Tornando a Dante, il progresso delle conoscenze non verrà solo da noi italianisti, ma dagli storici, dagli studiosi di arte e anche dai filosofi.
Boccaccio, in una prima versione del suo trattatello, ce lo racconta risolvere al volo, a Parigi, ben 14 questioni de quodlibet, cosa che lei considera fantascientifica. Come Gesù nel tempio, diventa una sorte di maestro dotato di poteri soprannaturali: perché Boccaccio vuole trasmettere questa immagine di Dante superman?
Teniamo presente che Boccaccio era un grande narratore. Il suo scopo era di accreditare Dante come modello insuperabile per legittimare la poesia e la letteratura in volgare (in italiano, e non più in latino) come attività nobili e portatrici di verità filosofiche e teologiche. E così accreditava anche l’alta moralità della sua opera, il Decameron, che gli stava molto a cuore.
Parigi era tappa accademica “obbligatoria” nel Trecento perché in Italia non c’era una facoltà di teologia. 700 anni dopo continuano a non esistere, le facoltà teologiche statali, in Italia. Che ne pensa?
Non mi pare di vedere le facoltà teologiche statali all’orizzonte, del tipo di quelle del mondo protestante, tedesco in particolare. Non credo che le vedremo mai, per le caratteristiche particolari del nostro Paese, almeno dall’età moderna in avanti perché a metà del Trecento le avevamo. Ci sono però eccellenti istituti accreditati, a Roma le università pontificie abbondano e dialogando con quei colleghi, noi medievisti impariamo moltissimo.
Come si diventa dantisti, nel suo caso?
Caso, scelta, destino. Tutt’e tre. Mi sono laureata in Lettere e tutto si è deciso con la scelta della tesi: ero indecisa tra Dante e il ’900 e alla fine, parlando con la mia prof di filologia dantesca, Daniela Delcorno Branca, ha deciso lei per me, affidandomi la tesi sul paesaggio del Purgatorio. Poi ho proseguito con il dottorato, studiando il manoscritto miniato più antico della Commedia. Ho proseguito le ricerche su Dante in Inghilterra per sei anni, in vari centri. Poi ho avuto la possibilità di rientrare in Italia, sono tra i miracolati che sono tornati.
Lei che ha fatto ricerca e insegnato nel mondo anglosassone, tra i due giganti, Dante e Shakespeare, chi sceglie per passare una bella serata d’inverno in compagnia di un libro davanti a un caminetto gradevolmente acceso?
Scelgo Shakespeare, che mi attira tantissimo, soprattutto nelle tragedie, a partire da Re Lear, anche perché Dante per me è un lavoro.
Scegliere una citazione dantesca è sempre un rischio: il passo preferito di Mussolini, per dire, era “dei remi facemmo ali al folle volo” di Ulisse. Come dire che si può far dire a Dante tutto e il contrario di tutto. E il suo versetto preferito?
Mi commuovono molto certi versi. Come l’inizio del canto ottavo del Purgatorio, “era già l’ora che volge il disio ai navicanti e ‘ntenerisce il core”: ci racconta qualcosa che ciascuno di noi, lontano da casa, può sperimentare. Leggendo quei versi ci si ricorda la sensazione che tutti abbiamo provato. E poi non c’è solo la Commedia. Nel Convivio per esempio descrive la propria pena per la condizione di esiliato da Firenze, che per lui non è il posto più bello del mondo, lo chiamerei il suo cosmopolitismo coatto, dicendo “per me il mondo è come il mare per i pesci”. La capacità di Dante di descrivere in modo preciso e conciso i propri sentimenti è davvero qualcosa che mi stupisce sempre.
La “riscrittura” pop di Dante forse non le dispiace, lei stessa è una brillante divulgatrice che non disdegna l’ironia, come si è visto anche nel 2018 al Sanbapolis: c’è una canzone, un film, un’opera teatrale di rilettura, che lei consiglia?
Il regista Pupi Avati, che ha girato un film su Dante visto da Boccaccio (furbo, ha risolto così, passando attraverso Boccaccio, un sacco di problemi sul sarà vero o no, chi se ne importa), ha scritto un libro pieno di umanità, e con un bel titolo, “L’alta fantasia”. E poi ho trovato molto affascinante il Dante Project per il Royal Ballet, di Wayne McGregor, livello stellare e profondità di pensiero.
Il settimo centenario è diventato anche l’occasione di una mostra sul Dante pop a Ravenna, curata dal linguista Giuseppe Antonelli. Dante come testimonial delle macchine da scrivere Olivetti, in una pubblicità del 1912, ne è un bell’esempio: queste operazioni le interessano o la irritano?
Non bisogna avere pregiudizi. Quella pubblicità dell’Olivetti è mitica, iconica e intelligente, perché univa lo strumento per scrivere al padre della lingua. Ci sono ormai infinite gradazioni nella declinazione pop di Dante, fino alla bottiglia dell’olio e alla luganega che magari sarebbe meglio di no. Resta il fatto che è difficilissimo fare divulgazione ad alto livello, unire competenza e creatività, cosa in cui noi accademici noi di solito non brilliamo. Ben vengano le iniziative in questo senso anche se l’anniversario del 2021, con ogni buco d’Italia che doveva dire che Dante era passato di lì, ha assunto dimensioni un po’ parossistiche, di super occasione per vendere di tutto.
Nel Convivio Dante scrive: “io che cercava di consolar me, trovai non solamente alle mie lagrime rimedio, ma vocabuli d’autore e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa… Ed imaginava lei fatta come una donna gentile. E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni dei filosofanti, sì che in picciolo tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire della sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero”. La filosofia l’ha davvero consolato della perdita di Beatrice? È ancora un buon suggerimento per gli amanti desolati di oggi, ammesso che abbiano quei trenta mesetti a disposizione?! (com’è vertiginosamente cambiata, in sette secoli, la misura del tempo).
Se si pensa che trenta mesi sono un corso universitario avanzato, non è un tempo poi così lungo. Dante era pieno di debiti ma ha mollato tutto e ha trovato il tempo per studiare. Gli si è aperto il mondo del sapere, dice che cercava l’argento e ha trovato l’oro. La curiosità ci fa compagnia e – certamente, come è accaduto a lui – ci può consolare.
Il canto della Commedia che lei predilige e raccomanda.
Mi piacerebbe che i lettori riprendessero in mano, più che i singoli episodi, l’opera nel suo complesso. O almeno una cantica. Ecco, consiglierei proprio il Purgatorio, per comprendere che cosa si legge: in fondo, un canto al giorno, ci bastano 33 giorni. Ed è un’esperienza molto bella.
In un bel libro su Dante di Enzo Fontana, “Tra la perduta gente”, si legge: “Dante in genere preferiva la compagnia dei libri a quella degli uomini. Il genere umano lo amava soprattutto quando gli stava lontano, in astratto, mentre per i bei volumi aveva una vera passione. Non solo era un divoratore di codici, ma aveva con essi un rapporto sensuale: amava accarezzarli, l’odore delle pergamene, addormentarsi con la fronte su una pagina”. Le torna, un Dante così?
Io credo che amasse molto i libri come oggetti, sì. Lo prova anche il finale della Commedia, con l’immagine metaforica dell’Universo come volume squadernato, rilegato nella mente di Dio. A un certo punto richiama anche il lettore, lo invita a star fermo sul suo banco, a leggere il suo libro, quindi un volume bello grosso, da banco appunto, non un tascabile, aprendosi a tutto il mistero che contiene.
L’inferno vuoto è uno dei modi in cui la teologia del Novecento ha cercato di risolvere la contraddizione di un eterno tormento deciso da un Dio che è solo amore: Dante non si poneva il problema perché voleva regolare i conti delle ingiustizie che aveva visto sulla terra e perché l’inferno era un pensiero quotidiano, se non ossessivo, nella sua epoca. Oggi, all’umanità contemporanea, può servire ancora il confronto con il concetto di inferno?
“Inferno” s’intitolava proprio la mostra curata da Jean Clair alle Scuderie del Quirinale, che presentava tra le altre opere su Dante la “porta dell’inferno” di Rodin. Ha offerto uno sguardo ampio sulle rappresentazioni del male, fino alle guerre mondiali, alla Shoah e all’11 settembre. L’inferno ci dà la chiave per una radicale esplorazione del problema del male. Ancora oggi attuale.
Un’ultima domanda personale da cui può anche svicolare con un “no comment”: lei ci crede, a una vita dopo la morte, anche se non magari nell’esatta riproduzione della formidabile immaginazione di Dante?
Eh, non lo so. Vivo, in un certo senso, come se ci fosse qualcosa dopo. Di sicuro non sarà come se lo immaginava Dante, che l’ha calato nella realtà cosmologica del suo tempo. Non posso pensarlo sottoterra, la Chiesa dice che sono stati e non luoghi. Lo scopriremo solo vivendo, o, in questo caso, morendo. Boh.