Blocco delle esportazioni del vaccino anti-Covid verso l’Australia imposto dal governo Draghi. E' la strada giusta?


Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
di Stefano Schiavo, Direttore della Scuola di Studi Internazionali e docente del Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Trento;
Andrea Fracasso, docente della Scuola di Studi Internazionali e del Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Trento
Siamo stati recentemente sorpresi dalla decisione del governo italiano di bloccare l'export dei vaccini “infialati” nello stabilimento Astra Zeneca di Anagni verso l’Australia. Ma forse, a pensarci bene, non c’era ragione di essere sorpresi.
In effetti, dall’inizio della pandemia, il numero di barriere all’esportazione di vario genere (dai veri e propri divieti all’imposizione di complesse procedure di autorizzazione preventiva) è aumentato notevolmente, sia su prodotti medicali utili a combattere la pandemia (mascherine e dispositivi di protezione personale, disinfettanti, respiratori polmonari), sia su prodotti agricoli, considerati beni di prima necessità. Un gruppo di economisti basato all’Università di San Gallo, in Svizzera, ha recensito nell’ambito del progetto Global Trade Alert, più di 200 restrizioni sui soli prodotti sanitari tra gennaio e settembre 2020.
Il ricorso a questo tipo di misure non è una novità. La storia recente è costellata di restrizioni imposte in situazioni di crisi, quando i governi vogliono dimostrare all’opinione pubblica che sono in grado di “fare qualcosa” per gestire una situazione complessa che desta preoccupazione. Come spesso accade, però, le risposte semplici non sono sempre o necessariamente quelle giuste.
Uno dei più efficaci esempi degli effetti negativi delle restrizioni all’export è il forte aumento nel prezzo del riso osservato ai primi del 2008 quando una serie di paesi decise di limitare le esportazioni come reazione all’aumento nel prezzo di altri beni agricoli. Nonostante l’aumento della produzione globale, il prezzo del riso aumentò del 300% nel giro di pochi mesi, con effetti molto gravi sugli strati più poveri della popolazione mondiale, la cui alimentazione si fonda sul consumo di riso e suoi derivati.
Una serie di altri effetti negativi sono ben documentati nella letteratura economica, e fanno riferimento in particolare alla possibilità che i partner commerciali oggetto delle restrizioni rispondano con misure analoghe, instaurando un “effetto domino”. Questo avvenne, per altre ragioni, negli anni ’30 del secolo scorso in reazione alla crisi del 1929, e ciò contribuì ad aggravare la recessione. E’ inoltre possibile che la produzione nazionale di alcuni prodotti vada in sofferenza per l’incapacità di importare componenti fondamentali dall’estero. Il deterioramento della catena di distribuzione e i ritardi sulle consegne registrati durante la pandemia hanno causato una crescita dei costi di produzione, che in parte sono stati trasferiti sui prezzi medi di vendita, nonostante la difficile fase congiunturale. In un mondo in cui la produzione di molti beni è integrata a livello globale, l’interruzione dell’approvvigionamento di materie prime e beni intermedi dall’estero può generare pericolosi effetti a cascata sulla capacità produttiva e sui prezzi. Questa considerazione non si applica direttamente ai vaccini, che sono dei beni finali; tuttavia, se ogni limitazione può generare reazioni restrittive di carattere ritorsivo o compensativo (legittime o meno) da parte di altri paesi colpiti, non è possibile escludere effetti a cascata di ritorno su altre filiere produttive.
Oltre agli effetti negativi di una serie incontrollata di restrizioni all’export, nel valutare queste misure deve essere considerato un altro elemento importante: le barriere all’esportazione non hanno alcun effetto sulla fonte del problema, che in questo caso è la scarsità di offerta di vaccini da parte dei produttori detentori dei brevetti. In questo momento e a queste condizioni, infatti, non vi sono, né vi saranno a breve, vaccini per tutti nel mondo. La domanda da porsi quindi è: siamo sicuri che dire “ognuno si tiene i suoi” sia la strategia migliore (pur essendo una risposta semplice e molto popolare)?
Ci sono almeno due motivi per ritenere che questa non sia necessariamente la strada giusta per l’Italia. In primis, nel complesso, il nostro paese dipende dalla produzione estera di vaccini. Cosa accadrebbe se domani mattina il Regno Unito, la Svizzera, gli Stati Uniti (e dopo domani, la Russia?) decidessero di bloccare le esportazioni verso l’Italia adducendo ragioni riconducibili all’interesse nazionale? Probabilmente lamenteremmo di essere trattati in modo peggiore dalle imprese produttrici per il solo fatto di non ospitarle sul nostro territorio. La capacità attrattiva del nostro paese nei confronti delle imprese multinazionali, nonostante l’abbondanza di capitale umano specializzato nel settore, potrebbe poi essere ulteriormente erosa qualora le imprese percepissero un rischio di poter essere soggette unilateralmente a restrizioni all’export in caso di “necessità”.
Una possibile obiezione a queste considerazioni è che “noi abbiamo firmato un contratto con questi produttori”. Certamente questo è vero, attraverso la Commissione europea. Ma probabilmente anche gli australiani, cui l’export in questione era diretto, hanno firmato contratti simili. Il fatto che le imprese farmaceutiche possano aver promesso più dosi di quante non riescano a produrre nei tempi previsti è un problema chiaramente importante, ma che non può essere risolto a livello globale attraverso restrizioni imposte paese per paese. Va anche ricordato che la produzione di vaccini non è, in condizioni normali, una priorità per le aziende farmaceutiche, alcune delle quali hanno deciso semplicemente di non essere presenti in quel segmento di mercato. La ragione è che per chi produce farmaci, un vaccino che debella una malattia (si spera!) è molto meno redditizio di un farmaco che ne cronicizza un’altra.
Il secondo aspetto che stride un po’ con l’attuale reazione italiana è che durante la prima ondata della pandemia il nostro paese ha sonoramente protestato in sede UE per le “possibili restrizioni” ventilate da Francia e Germania all'export di prodotti come mascherine e disinfettanti. È certamente vero che la partecipazione al mercato unico europeo genera una legittima aspettativa di non essere discriminati dai partner, nemmeno in presenza di rischi per la salute pubblica e la sicurezza nazionale. Ma è altrettanto evidente che ora sembriamo apprezzare quanto prima criticavamo, ovvero la logica dell’ognun per sé.
È poi senz’altro possibile che le dosi di vaccino destinate all’Australia siano necessarie con maggiore urgenza in Italia. Ma questo ragionamento si muove su una china pericolosa se percorsa in isolamento da ciascuno Stato: chi decide quale paese ha più diritto ai vaccini? sulla base di quali criteri? il PIL pro capite (come proposto da qualche esponente politico)? il numero di casi (misurati come)? la pressione sul sistema sanitario (misurata come)? il luogo dove il siero è stato messo nelle fiale (o dove i brevetti sono registrati)?
È possibile che questo episodio vada semplicemente interpretato come una simbolica dimostrazione di forza nei confronti di alcune case farmaceutiche, alla luce delle incoerenze tra le dichiarazioni pubbliche dei dirigenti e le effettive azioni delle aziende sui mercati internazionali. Se efficace e isolato, questo episodio potrebbe aiutare a che non si verifichino ulteriori problemi e non si introducano nuove restrizioni. In linea generale, tuttavia, è difficile pensare che azioni unilaterali possano essere di qualche utilità nel combattere un problema globale come la pandemia. Serve uno sforzo di coordinamento internazionale per evitare ci si arrivi ad una “guerra” dei vaccini per cui chi ha le dosi se le tiene strette, lasciando che gli altri (chi non le produce o chi non ha la capacità di acquisto e gestione)si arrangi come può …