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Scrittura en travesti. Intervista di Carnevale a Maddalena Fingerle

DAL BLOG
Di Il Lanternino - 08 febbraio 2024

di Stefano Zangrando, docente, traduttore e autore

Esordire bene è una bella grana. Se uno scrittore parte con il botto, poi il pubblico di lettrici e lettori che si è conquistato con quel primo libro si aspetta qualcosa anche dal successivo. Maddalena Fingerle, autrice bolzanina di stanza in Baviera, ha debuttato vincendo nel 2020 il premio Calvino, il più importante premio letterario per esordienti, con il romanzo Lingua madre, uscito l’anno dopo per i tipi di Italo Svevo. Nel 2022, mentre il romanzo usciva in traduzione tedesca, Fingerle si è smarcata dalle attese con un testo di poche decine di pagine, Una proposta stronza (Tetra), che fonde gravidanza e scrittura in una specie di racconto-saggio sullo scrivere: quasi una sbirciata nel suo laboratorio. Era il secondo libro, ma al tempo stesso non lo era ancora: toccava aspettare.

 

Sul finire dello stesso anno, sempre in territorio tedesco, è apparsa in volume la sua tesi di dottorato su Giambattista Marino. Ma un saggio scientifico può forse considerarsi l’opera seconda di una narratrice? Certo che no. Passa un altr’anno ed ecco che l’editore Italo Svevo manda in libreria L’Adone non è noioso, un centinaio di paginette in cui, con piglio divulgativo, la giovane autrice trasporta in Italia il succo letterario della sua ricerca. Dunque ci siamo? Non proprio, poiché nel frattempo in un paio d’interviste Fingerle aveva annunciato quello che finalmente sarebbe stato il suo secondo romanzo: era in lavorazione con Mondadori e avrebbe parlato di una ragazza che, abbandonata da colei che ama, fa tutto per diventare quest’ultima. Uscirà a fine mese e si intitola Pudore.

 

Se un nucleo di trama non basta a esaudire un’attesa, bisogna almeno riconoscere che promette bene. Ci voleva tanto?

M.F.: «Se fosse un’intervista trascritta qui ci sarebbe una parentesi con scritto: ride. Mi fa piacere. La difficoltà maggiore è stata stare dentro la storia, non farmi prendere dall’ansia o da presunte aspettative e dire quello che avevo da dire, trovare la voce che cercavo».

 

Dalle anteprime pare che la storia abbia a vedere anche con il travestimento, un tema o un motivo che ti porti dietro fin dagli esordi e sembra non volerti abbandonare.

«Sì, il travestimento è un tema centrale nel romanzo che non avevo ancora esaurito, l’ho studiato a livello teorico e sentivo l’urgenza di sperimentarlo in un testo di narrativa. Mi affascina molto l’idea che si possa trovare la propia essenza nel momento in cui si ha una maschera, capire la propria identità entrando in vesti altre. Quando si perde una persona amata la si può trovare in un gesto, in una parola o in un movimento. Gaia, la protagonista, prova a ritrovare la sua ex diventando (come) lei».

 

Gaia, dunque, si chiama così. Ma anche Adone si traveste: da donna per sfuggire a Falsirena; e lo fa Venere, da Diana, per malizia, e pure Marino, che si traveste da autore morale per far passare contenuti licenziosi. Chi di loro ti somiglia di più?

 

«Che bella domanda! Vorrei dire Adone perché mi piace l’idea di giocare con i generi, Venere perché le invidio la sfacciataggine, Marino perché fa un gioco delizioso. Ma la verità è che quando mi travesto – in genere metaforicamente – lo faccio per capire le cose che non capisco, che mi ossessionano, mentre loro si travestono dopo aver già capito. Vabbè dai, forse Adone che scappa da Falsirena, perché il meno eroico?»

 

Devo crederti o ti stai mascherando?

«Mi sto mascherando davanti a me stessa: mi piacerebbe un travestimento in stile Marino, ma mi sembra presuntuoso pensare di farcela».

 

Resta il fatto che nel libro sull’Adone dichiari: «Scrivere è travestirsi da pagliacci!» E lo fai in contrasto con una tendenza molto odierna all’autofiction e al memoir. O non hai idiosincrasie, poeticamente parlando?

«Credo davvero che la scrittura sia un travestimento, ma non trovo che questo sia in contrasto con l’autofiction. O almeno, dipende dal modo in cui la si fa. Penso all’esposizione di sé che però diventa qualcos’altro; per esempio Michele Mari o Teresa Ciabatti prendono ciò che può essere considerato negativamente, di cui ci si potrebbe vergognare, e lo esasperano. Ne fanno dei veri e propri personaggi. Se non è travestimento questo! Idiosincrasie ne ho, certo, ma non troppo snob, credo. Mi infastidisco quando leggo libri che mi sembrano ancora appunti, dove manca un lavoro (certamente faticoso) di stesure e riscritture, a maggior ragione se mi sembra che ci sia la capacità di farlo. Ho avuto questa sensazione con Niente di vero di Veronica Raimo e con La verità e la biro di Tiziano Scarpa. Poi non sopporto quando la scrittura è impregnata di evidenti motivazioni esterne – cosa che invece perdono a testi seicenteschi, ma per via di un contesto differente – e quando c’è un appiattimento linguistico per cui tutti i personaggi parlano nello stesso modo. Non mi scandalizzo per chi ha molto successo e un presunto scarso valore letterario, è proprio un modo di pensare che non mi appartiene».

 

A proposito di personaggi: nella lingua di Paolo Prescher, il protagonista di Lingua madre, avevi nascosto anche varie citazioni letterarie, poi ne L’Adone non è noioso racconti che nessuno se ne accorse e così ci sei rimasta male, prima di capire che fa parte del gioco. Che cosa ti aspetti dal tuo lettore ideale, se ne hai uno?

«Per ogni testo che scrivo ho in mente una persona diversa, reale o fittizia, che lo legga. Ma la verità è che le letture più emozionanti alla fine sono state quelle di persone completamente diverse da quelle che immaginavo, quelle che mi hanno detto qualcosa che non sapevo».

 

Una cosa di Lingua madre che ti hanno detto e non sapevi?

«Che parla d’amore, anche quando sembra odio».

 

E Marino cosa direbbe: hai espresso del suo Adone qualcosa che non sapeva? Magari una buona ragione per leggerlo che lui nemmeno sospettava?

«Non credo, ma anche se fosse probabilmente l’avrebbe negato o avrebbe fatto finta di saperlo già. Una buona ragione per leggerlo è che stupisce – lui questo lo sapeva bene, però – e mi sembra una cosa rara».

 

Tornando invece a Pudore, vuoi dirmi della sua «vernice caseosa», sempre ce l’avesse? 

«Nel libretto Una proposta stronza la voce narrante sostiene che nel momento della consegna il testo è ricoperto da una patina di vergogna, una coltre di imbarazzo che paragona alla vernice caseosa, una pellicola che protegge il neonato dai batteri. Dopo pochi giorni scompare, l’importante è non levarla. Pudore non poteva che essere strabordante di vernice, a partire dal titolo, ma devo ammettere che mi preoccuperei se consegnassi un testo senza sentire imbarazzo».

 

La storia di Gaia sembra annunciarsi giocosa e perturbante ad un tempo. Quanto la sua ricerca identitaria dipende anche dalle sue origini, di luogo e di classe, e da quelle della sua amata ex?

«Gaia cerca di capire chi è proprio perché vive in un contesto che non le permette la libertà di essere sé stessa. La famiglia di origine, borghesi italiani che vivono a Monaco, non accettano di buon occhio che non abbia studiato e che lavori in banca. Sono persone agiate che non si sporcano le mani, e non sanno montare un letto. Gaia vorrebbe tanto saper montare un letto da sola. E Veronica, capacissima di montarsi un letto da sola, è una donna libera e carismatica, viene da una famiglia che fa i dolci nei contenitori del mascarpone».

 

In cosa speri non venga fraintesa questa tua opera seconda?

«Spero non venga letta solo come una storia omosessuale tra due donne. Ma in realtà penso anche che dai fraintendimenti si possa capire, riflettere e imparare molto».

 

E un augurio conclusivo a chi la leggerà?

«Che si emozioni – qualunque emozione sia».

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