“Santa o sgualdrina”: un reportage per testi e immagini sull’essere donna in Italia


di Stefano Zangrando, docente, traduttore e autore
“Le donne sono superiori”: la cattiva coscienza di genere di un uomo ancora immerso in una cultura patriarcale, ma in qualche modo aperto – con qualche decennio di ritardo – all’emancipazione femminile, si esprime a volte con affermazioni come questa. E al plurale che generalizza si sostituisce in certi casi il singolare che idealizza, per cui “la donna è un essere superiore” (ci manca solo la “D” maiuscola).
Si tratta in ogni caso di asserzioni che rivelano una distanza grossolana dalle persone concrete, dalle loro qualità e i loro difetti, dalle loro storie. E che, nel tradire una sostanziale lontananza dall’universo femminile reale, o una nozione superficiale dell’altro genere, finiscono per ammiccare – ironia dell’astrazione – alla misandria, cioè il disprezzo aprioristico del maschio che anima certo femminismo radicale.
È facile del resto, per un uomo, fare l’elogio della “donna” in un mondo che continua a preservargli i privilegi e i margini di prevaricazione ereditati da un patriarcato plurimillenario. Senza contare che il riconoscimento delle identità di genere dovrebbe prima o poi lasciare il posto, in una cultura progredita, alla libertà di muoversi fra i generi entro uno spettro ampio di sfumature con pari diritti, a prescindere dal sesso e dal suo orientamento.
Vengono in mente queste e altre riflessioni leggendo il libro Santa o sgualdrina. Essere donna in Italia (ed. Raetia, Bolzano, 224 pp.), un reportage composito, testuale e fotografico, compilato da due giornaliste di origini sudirolesi e madrelingua tedesca, Barbara Bachmann e Franziska Gilli, e uscito contemporaneamente in tedesco e nella traduzione italiana di Federica Romanini.
Il libro, scrivono le autrici, “nasce dal desiderio di dare la parola alle donne e di accrescerne la visibilità”, e la scelta di concentrare l’indagine sull’Italia è dipesa anche dal fatto che “l’immagine della donna diffusa nella società italiana è rigida e stereotipata come in pochi altri paesi d’Europa”. Di qui il titolo appunto, che riconduce alla polarizzazione simbolica tra la Vergine Maria e Maria Maddalena.
Il volume è diviso in sette sezioni, corrispondenti ai peccati capitali, anch’essi “emanazione diretta del pensiero manicheo dell’influente Chiesa cattolica”, uniti ad altrettante qualità più o meno antitetiche: gola & disciplina, ira & amore, avarizia & generosità, e così via. La virtù principale del libro è nella sua varietà, nel restituire una molteplicità che non consente giudizi sommari o, per l’appunto, generalizzazioni.
Il capitolo d’apertura è a tinte vivide come il mondo televisivo che ritrae, quello con cui l’impero mediatico berlusconiano dagli anni ottanta ha dettato gli ideali di bellezza femminile. Segue il ritratto narrativo di una giovane utente di Instagram, di cui si ricostruisce la vicenda personale mettendone in luce i risvolti meno luminosi. Un secolo di citazioni, per lo più maschili, rivela poi con particolare forza la matrice fascista del maschilismo nostrano, annettendovi in seguito, per contrasto, la galleria rapsodica di una giovane famiglia torinese in cui i due genitori condividono in modo paritario diritti e doveri, o almeno ci provano.
L’apparato fotografico, corredato di didascalie, si presenta a volte autonomo, come nel reportage dal convento delle Suore Pie Operaie dell’Immacolata Concezione di Ascoli Piceno, successivo a un testo di denuncia sugli abusi subiti da donne partorienti nella sanità italiana e soprattutto calabra; a volte procede invece di pari passo con testi più brevi, come gli autoritratti di dodici donne diverse per vita, opinioni ed età, o le interviste a undici uomini altrettanto variegati – dove non manca, naturalmente, un’affermazione come quella con cui si apre questo articolo.
Più indigesta, ma per forza, risulta la cronaca cruda di una serie di femminicidi avvenuti all’inizio del 2020 (e qui il pensiero va a quella copiosa rappresentazione del male che è “La parte dei delitti” nel romanzo 2666 di Robero Bolaño), su cui le successive immagini pubblicitarie, tratte da un secolo di usi commerciali degli stereotipi sulle donne, gettano una luce quantomeno straniante. Non molte speranze destano poi, per la loro realistica rappresentatività, gli interventi maschili ospitati nel libro, fra i quali si smarcano più di altre le dichiarazioni dei film-maker Gustav Hofer e Luca Ragazzi, autori del documentario Dicktatorship (2019) sul maschilismo dominante nel Belpaese.
Richiamandosi ad esempio a un intervento della scrittrice Michela Murgia nel loro film, Ragazzi osserva: “Gli uomini tentano da sempre di creare competizione tra le donne per impedire che solidarizzino. Spaccare il mondo femminile significa per loro renderlo più controllabile. Divide et impera, come recita il motto romano. Le donne sono in maggioranza, ma gli uomini al potere fanno loro credere di essere minoranza”.
Il volume si conclude con un reportage per testo e immagini sull’associazione femminista “Non una di meno”, a rappresentazione di un essere donna che si ribella allo status quo e alle sue cronache efferate; e che aspira a estendere il proprio consenso, ad avere più voce in un dibattito pubblico ancora troppo inficiato da una parità di genere spesso sbandierata, ma altrettanto spesso smentita dai fatti.