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Nella terra della contrizione. Il Trentino e gli anni ottanta nel nuovo romanzo di Pino Loperfido

DAL BLOG
Di Il Lanternino - 12 gennaio 2024

di Stefano Zangrando, docente, traduttore e autore

È una storia bella, quella raccontata da Pino Loperfido ne La grande nevicata dell’85 (Edizioni del Faro). Con lo stesso titolo, e lo stesso canovaccio, un paio d’anni fa l’autore pugliese trapiantato in Trentino aveva realizzato un monologo teatrale recitato da Mario Cagol con l’accompagnamento musicale di Alessio Zeni, per la regia di Andrea Brunello. Il romanzo, forte di una complessità d’altro genere, è uscito da pochi mesi e segue il meno recente Ciò che non si può dire, storia di una ricerca di sé sullo sfondo della tragedia del Cermis, che un paio d’anni fa aveva inaugurato la medesima collana «Solenoide» dell’editore trentino. Ed è una storia bella, perché somiglia quanto basta alla vita e, pur raccontando gli anni ottanta del secolo scorso, non pretende di essere un “affresco storico”.

 

C’è dunque un narratore, il giovane libraio Paolo, che vive in un paesino di seicentocinquanta abitanti poco sopra Trento con i genitori, la sorella Sara e una strana zia, e c’è il protagonista, Vito, che il 9 dicembre 1980, poche ore dopo l’assassinio di John Lennon, arriva in Trentino dalla Puglia, mosso forse da una specie di sogno premonitore, forse da «un’innata propensione al cambiamento [che] lo spronava a ricercare luoghi e volti, paesaggi inediti che ne soddisfacessero il bisogno psichico». Di certo la sua è una psiche irrequieta e particolarmente dotata: versato nell’informatica, Vito ha però un’indole umanistica e un po’ dandy, per cui non può evitare di riflettere sul mondo.

 

A Trento ci arriva per incontrare Sara, di cui è amico di penna, nonché sull’onda di una curiosità nata da un francobollo sul quale sono ritratti i quattro più noti irredentisti – col che il cliché su Trento-Trieste è servito e smontato. L’incontro-scontro con la chiusa terra del nord è fin da subito culturale: la lingua innanzitutto, poiché i trentini sembrano brandire il loro dialetto come un’«arma preventiva», e il cattolicesimo, incarnato soprattutto dal «Gruppo Ecclesiale Trentino» di cui Sara fa parte e che aiuterà Vito nel primo periodo di soggiorno. C’è poi la geografia, per cui sul primo posto di lavoro che trova, un’azienda informatica locale, lo scherno mal celato verso l’uomo del sud non si fa attendere. Fortuna che a casa di Sara e Paolo vale un’altra simpatia, quella politica per Berlinguer, per cui almeno è assicurata l’approvazione del padre.

 

Sarà poi per l’anno orribile appena concluso – Ustica, la strage di Bologna, il terremoto in Irpinia – o per la sua peculiare sensibilità, sta di fatto che Vito sente i tempi cambiare e non perde occasione per metterne a parte, con l’irruenza di una lavatrice, il futuro cognato (Sara infatti ne è presto la fidanzata e, fin dalle prime incomprensioni fra i due, a Paolo tocca lo scomodo ruolo del paciere). Loperfido ha qui gioco facile a fare di quella di Vito una sorta di veggenza sul nostro presente, più acuta di quella pazzoide della zia petomane, per cui l’effetto è quello di uno straniamento a posteriori. Che resta più efficace, tuttavia, quando a parlare sono i fatti esterni, come il dramma ahimè televisivo di Alfredino Rampi – «In quei giorni l’Italia perse in un colpo solo l’innocenza e la verginità» – o la pubblicità con cui nel 1984 Apple lanciò il primo Macintosh.

 

Frattanto Paolo si fidanza anche lui e Vito, stufo di un lavoro più vicino allo sfruttamento che al suo spirito visionario, si fa attirare a Berlino per una esperienza professionale che gli farà incontrare Inga, poi lasciata non senza struggimento. Ma Vito è un promesso sposo, su questo non discute, e dunque torna nella terra della contrizione e della «beatificazione della fatica». Serve a poco: nuove tensioni, litigi, alcool, lo spettro della separazione, il padre di Sara che muore, Craxi che fa le leggi per la Fininvest e agli occhi della zia incarna il Male – finché arriva il 1985, e con esso la «grande nevicata» del titolo. Prende spazio, l’evento che durò giorni, quasi a indicarne un valore metafisico, di monito e rivolgimento, e in esso Vito sembra scomparso, anche perché aveva minacciato di suicidarsi lasciandosi sommergere dalla neve. Carabinieri, allarme, macché: Vito risbuca dal bianco e ha con sé una visione. Per di più Sara è incinta.

 

Tutto ora sembra in discesa, ma non lo è: la vita non perdona e la Storia neppure. Sposarsi è un’alea esistenziale, gli anni ottanta sono solo a metà e l’inondazione in Val di Stava è dietro l’angolo. Qui però mi fermo, limitandomi a una constatazione: il romanzo fila che è un piacere, la godibilità è alta nonostante qualche passo un po’ piacione, ma è saltuario: Loperfido sa quel che fa e il suo narratore, dopotutto, vuole solo un divertirsi un po’. Anche perché, quando invece sono la tragedia o il dramma a prevalere, la natura si fa largo con la brutalità autopoietica del bios, indifferente, rispetto alla quale perfino la Storia sembra un lusso. E tutto ciò che la parola non salva, va perduto.

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