L'invasione dell'Ucraina, la notizia da affrontare in classe e l'inconscio tentativo di suggerire ai miei ragazzi di non badare soltanto alla guerra


di Stefano Zangrando, docente, traduttore e autore
Non è stato facile affrontare da insegnante lo scoppio della guerra. Il mattino del 24 febbraio sono arrivato a scuola con il «Corriere della sera» che riportava in prima pagina la data di quel giorno, grande e centrale, come a volerla imprimere a lettere di fuoco per i libri di storia. Eppure quella mattina, in cui ho avuto lezione in tutte le mie classi, il giornale è rimasto nello zaino. Nei giorni precedenti era successo, ovviamente, di commentare in classe il crescere della tensione, che per noi era stata più che altro tensione mediatica, alimentata soprattutto dai preallarmi statunitensi, con echi da nuova Guerra fredda. Ma non ci volevamo credere del tutto, come per un appiglio irrazionale di speranza o forse perché – un po’ come ci trovò impreparati lo scoppio della pandemia due anni fa – le categorie esperienziali sviluppate da europei in oltre vent’anni di pace (la guerra del Kosovo finì nel 1999, prima che i miei alunni nascessero) non contemplavano un mutamento radicale come quello di un’invasione militare alle porte del continente che ci riportasse indietro di decenni.
Ma il punto è proprio questo: il mattino del 24 febbraio, in procinto di fare lezione in quinta superiore, il parallelismo che mi veniva in mente su tutti, com’è successo a molti, era quello con Hitler, la Polonia, il 1939. E volevo diffidarne, o almeno evitare ai miei alunni un paragone così affrettato e univoco. Così come volevo evitare di dare troppo risalto all’evidenza che, proprio adesso che si stavano finalmente placando le preoccupazioni legate al Covid-19, ecco irrompere una nuova e più grande fonte di paura. Non volevo trasmettere l’idea che i media si nutrono soprattutto della nostra ansia: è vero, ma non ci si può, non ci si deve fermare a questo. Già durante la pandemia avevo sempre invitato alunne e alunni a conservare un senso della complessità che li riparasse dalle semplificazioni e dalle manipolazioni faziose. Sicché fu in qualche modo confortante che, durante la lezione in quarta, freschi di rivoluzione francese, la classe mi chiedesse di parlare della guerra, ma portando una pluralità di argomenti – le ragioni dell’Ucraina, quelle della Russia («Occhio ai russi, prof, già Napoleone...»), il presenzialismo degli USA, gli opposti imperialismi, il rischio atomico, l’accoglienza dei rifugiati («Di serie A questi, di serie B altri?») – che in fin dei conti restituivano la nostra difficoltà di orientarci tra gli avvenimenti e le notizie. Non avevo risposte per loro, solo modi diversi di formulare le loro domande. E il «Corriere della sera», con quella data impressa a centro pagina, è rimasto nello zaino, com’era già successo durante la lezione in quinta e in terza.
Perché non ho mostrato il quotidiano alle mie classi sposando l’ufficialità di quel giorno drammatico? Sulle prime, nei giorni successivi, ho pensato che si fosse trattato, da parte mia, di una sorta di rimozione: del tentativo di prolungare il più possibile l’epoca precedente il 24 febbraio, quella in cui stavamo ancora “soltanto” uscendo dalla pandemia, iniziando finalmente a programmare qualche attività extra-scolastica dopo due anni di scuola mutilata. Ma c’è un’altra ragione, e dopotutto è quella che ho tradotto in pratica, senza tanto pensarci su, quello stesso giovedì mattina. Avevo in programma due lezioni, una sul Decameron di Boccaccio e una su La coscienza di Zeno di Italo Svevo.
In terza avevamo già abbordato la cornice del Decameron, ma quel mattino ho voluto ricordarla una volta di più: dieci giovani, tre ragazzi e sette ragazze, fuggono da Firenze infestata dalla peste e si ritirano in un luogo ameno per procurarsi diletto raccontandosi storie. Il narratore dice che non rivelerà i loro nomi reali per evitare che i dieci siano poi presi di mira da invidiosi e moralisti: ne difende il diritto al piacere in un mondo tutto intento a fronteggiare la morte. Il capolavoro che ha inaugurato la narrativa europea moderna nasce con una fuga dalla Storia e un’immersione nelle storie: perché negare una tale opzione ai giovani d’oggi? Così quel giorno e i successivi, nelle ore di italiano, siamo stati sul Decameron più che sulla cronaca, assistiti dalle letture ad alta voce di Aldo Busi o dalle riduzioni filmiche di Pasolini: Ser Ciappelletto, Andreuccio da Perugia, Lisabetta da Messina. Ho fatto bene? Non lo so, ma ho fatto quello che sentivo giusto.
In quinta, invece, la classe aveva già conosciuto la «Prefazione» del Dottor S., si trattava ora di spiegare come il grande romanzo di Svevo fosse composto e di cosa parlasse. È stato a quel punto che, dopo una panoramica sui vari capitoli, ho voluto spoilerare anticipando loro che Zeno, il protagonista del romanzo, verso la fine si sentirà «guarito» in concomitanza con lo scoppio della prima guerra mondiale: un’ironia maliziosa da parte dell’autore, quasi a ricordarci che la vita umana può pure proseguire ed evolversi autonomamente dai decorsi storici, persino quando sono tragici. Anche qui: cos’ho voluto trasmettere loro? Non lo so con esattezza, non certo invitarli a distogliere lo sguardo da quel che sta accadendo. Forse ho solo voluto suggerire loro che hanno una sorta di diritto naturale, legittimato dalla stessa storia letteraria, di non badare soltanto alla guerra.
Ho sorvolato invece, quel giorno e nei successivi, sulla pagina finale del romanzo di Svevo, quella in cui si parla di un uomo «degli altri un po’ più ammalato» che un giorno si arrampicherà al centro della terra con un potente «ordigno» per farla esplodere, ma – a giudicare dalla piega che hanno preso gli eventi – la affronteremo presto.