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Lettere da Nordest, un libro che abbraccia il Triveneto con 18 autrici e autori del nostro territorio

Chi vi scrive ha preso parte a questa pubblicazione da poco in libreria. Quella che segue è una parte del suo contributo
DAL BLOG
Di Il Lanternino - 10 ottobre 2019

di Stefano Zangrando, docente, traduttore e autore

È da poco in libreria “Lettere da Nordest” (Helvetia), a cura di Cristiano Dorigo e Elisabetta Tiveron, un libro che, affrontando il territorio del Triveneto e la sua storia recente, “prova ad uscire dalle stereotipie, dai luoghi comuni e ad entrare nelle nervature, nell'inconscio attraverso le parole”. Vi hanno collaborato diciotto autrici e autori veneti, friulani, e trentini: Ubah Cristina Ali Farah, Gianfranco Bettin, Francesca Boccaletto, Antonio G. Bortoluzzi, Roberta Cadorin, Alessandro Cinquegrani, Elisa Cozzarini, Fulvio Ervas, Angelo Floramo, Patrizia Laquidara, Luigi Nacci, Silvia Salvagnini, Giacomo Sartori, Federica Sgaggio, Tiziano Scarpa, Gian Mario Villalta, Francesco Jori e l’autore di questo blog. Quella che segue è una parte del mio contributo.

 

Quando il professor Minvollai ricevette la proposta di una docenza a Bolzano, lo prese una fitta alle viscere. Non era per tornare nella sua città natale che aveva contattato l’istituto Glox durante l’anno sabbatico. Voleva rimettersi in gioco, questo è vero, provare a staccarsi, a quarant’anni quasi quarantuno, dalla scuola paritaria trentina dove aveva lavorato negli ultimi quindici barattando la sua naturale irrequietezza con dermatiti e lichen – ma non per finire nella città dalla quale era fuggito a venti. Dal Glox, con sedi a Bolzano e Trento, sperava di ottenere corsi di tedesco per aspiranti interpreti e traduttori del bacino d’utenza veneto o, ancora meglio, per i lavoratori di qualche azienda trentina costretti dalla crisi a guardare al più solido mercato d’Oltralpe.

 

Lì si sentiva forte: nel tedesco, l’idioma che gli era stato imposto come unica lingua straniera dalla prima elementare alla quinta superiore e che, a dispetto della propaganda missina che gli aveva imbrunito l’adolescenza, aveva scelto come prima materia all’esame di maturità. Certo, anche lui la prima volta che era entrato in una cabina elettorale aveva messo la croce sulla fiamma tricolore, come tutti nel suo giro, ma gli era bastato il primo esame di sociologia a Trento per rivoltarsi come il budello immangiabile di un würstel e, prostrato per la prima volta da un potente raffreddore da fieno, passare al fronte opposto alle amministrative tenutesi in quell’indimenticabile primavera di risveglio.

 

Davanti all’e-mail del direttore del Glox che gli illustrava gli obiettivi di quel corso di italiano per migranti, Minvollai portò una mano alla pancia immaginando che il tepore umido del palmo potesse attraversare i muscoli addominali, raggiungere le contratture del secondo cervello e placarle. Quanto tempo era passato da quando un gastroenterologo di Borgo Valsugana gli aveva diagnosticato un intestino irritabile? Era il periodo in cui suo figlio, sfogliando in braccio a lui il suo primo vocabolario tedesco illustrato, indicava alcuni oggetti e li nominava per la prima volta. Come si era commosso Minvollai quando il piccolo Enrico aveva indicato l’immagine di un libro e aveva detto: “Buch!” Presto tuttavia il pargolo si ribellò, non capiva perché suo padre dovesse usare con lui una lingua diversa da quella che parlava con chiunque altro e, in maniera del tutto spontanea, prese a rispondergli solo in italiano.

 

Minvollai si arrese quasi subito a quella determinazione: dopotutto, come dovette riconoscere con rimpianto, suo figlio non stava crescendo in una famiglia bilingue del Sudtirolo, ma in una del basso Trentino e italofona, semmai con incursioni nel dialetto dei nonni materni. Che ne poteva capire, il duenne, di vantaggio cognitivo e opportunità future? Mica poteva farlo sentire in colpa per avere una carta in meno persino rispetto ai suoi compagni con genitori africani o dell’Europa dell’est, che in casa praticavano altri ceppi. Era una carta solo culturale, è vero, ma anche sul piano materiale la differenza non era poi così grande ora che gente come sua moglie e lui, frutti del ceto medio post-boom, scivolavano di anno in anno verso la soglia di sussistenza minima di quelle famiglie straniere.

 

L’italiano a Bolzano, figuriamoci, proprio ciò da cui riteneva di essere scappato mezza vita prima. Certo, c’erano di mezzo dei migranti, anzi delle migranti, come spiegava il direttore nell’e-mail, la cosa suonava engagé a sufficienza per farlo sentire a suo agio, ma non era forse da quei figli espiantati della lingua del sì, dai suoi connazionali sradicati e complessati del capoluogo, sé giovane compreso, che aveva voluto allontanarsi? Dal loro risentimento di ex-maggioranza e, proprio a partire dall’anno in cui era nato, neo-minoranza vessata dall’obbligo del bilinguismo e dalla distribuzione proporzionale dei posti di lavoro pubblici in quella terra per tre quarti tedesca e un ventesimo ladina? – E lui nella progenie dei coloni, seppur già repubblicani: anche i suoi nonni rientravano nelle schiere di chi era arrivato a Bolzano nel secondo dopoguerra a cercare lavoro.

 

Dal Veneto, nel loro caso: i materni vicentina e rovigotto, i paterni dal Cadore, dove lui aveva passato almeno un mese ogni estate dai tre ai dodici anni e dove si era innamorato per la prima volta: di una trevigiana ricontattata un quarto di secolo più tardi su Facebook senza che ovviamente ci fosse più niente da dire. In Sudtirolo invece, o Alto Adige – come lo chiamava nella sua prima vita – dove le tedeschine passavano per facili e imperdibili, la sua educazione erotica era proseguita soltanto con altre italiane della sua specie, con la carta d’identità verde e in bocca un italiano standard come quello di Licia Colò a Bim bum bam.

 

Adesso anche lui ce l’aveva marrone, pensò per consolarsi Minvollai massaggiandosi il ventre con più intensità, nonostante il suo cognome un po’ ladino e un po’ tedesco ereditato dal padre bastardo del suo nonno cadorino, un anarchico inghiottito dalle crepe del crollo austro-ungarico durante la Grande guerra. Così da qualche anno non doveva più sorbirsi i commenti ignoranti sulle diciture bilingui del suo documento da parte di ogni italiano che glielo vedeva a sud della chiusa di Salorno, oltre il confine linguistico che separava il Sudtirolo dal resto del paese.

 

Continuava a sbalordirlo, anche in Trentino, quanto poco si conoscesse la storia almeno novecentesca della sua terra natia. Aveva un bel rievocare, lui, l’italianizzazione forzata dei sudtirolesi sotto il fascismo, o la fregatura in combutta che Hitler e Mussolini avevano loro impartito con la faccenda delle “opzioni” – si rifiutava ormai di spiegarsi quando gli chiedevano perché ce l’avesse tanto con la sua città natale e la chiamasse “colonia”. Tanto più che, a spingersi poi nella seconda metà del secolo, doveva ammettere che i fatti più gravi – gli attentati dei separatisti, la reazione poliziesca dello stato, i rigurgiti bombaroli degli anni sessanta fino ai più recenti e fatui, le bombe intimidatorie fatte scoppiare nei cassonetti di Bolzano quando lui era ragazzino – a lui e alla sua famiglia non lo avevano toccato. [...]

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