
di Stefano Zangrando, docente, traduttore e autore
Un uomo che vive da solo nella cantina di una casa diroccata ripercorre la storia di un addio: il commiato di una donna, in una località alpina di confine, un inverno di molti anni prima. Lo racconta a un’altra donna, che gli fa visita ogni tanto e di cui sappiamo poco o nulla, ma quanto basta a fiutare tra lei e l’uomo un altro amore mancato. Fuori da una finestra a livello del suolo, sopra le loro teste, si estende una metropoli immersa nella ricostruzione del secondo dopoguerra, forse Berlino: la città dove dai primi anni cinquanta visse e scrisse Franz Tumler (1912-1998), uno dei numi tutelari della letteratura sudtirolese.
Mi era già capitato, ai primi vagiti di questo blog, di citare la peculiare vivacità della scena letteraria dell’Alto Adige-Südtirol, che non ha eguali in altre periferie d’Italia. Neppure sotto l’aspetto dell’ombelicalità, certo: nessun’altra provincia dello stivale è tanto ossessionata dalla propria storia, dalle proprie tradizioni e dalle proprie identità (qualunque cosa significhi questo termine), al punto da aver stabilito persino una propria storia letteraria, prima solo di lingua tedesca, poi affiancata anche da una italiana e via via sempre più mista e trilingue, Ladinia compresa.
Però almeno è una storia basata su personaggi reali, ossia gli scrittori e le scrittrici che hanno voluto e saputo raccontare questa terra in opere di una certa qualità. E tra i progenitori di questa letteratura gli studiosi, come anche chi oggi scrive e opera nei tre gruppi linguistici, annoverano appunto Franz Tumler, bolzanino di origine vissuto soprattutto in Austria e Germania, la cui opera più importante è Aufschreibung aus Trient (trad. it. Incidente a Trento, ormai introvabile), un romanzo che rielabora, guarda caso, le nozioni di confine e identità resuscitando, tra i suoi pochi personaggi, niente meno che Cesare Battisti.
Ma torniamo a quell’uomo solitario: c’è modo e modo di rimembrare la fine di una relazione. C’è il modo sentimentale, sospirante o malinconico, che si nutre dei nostri impulsi più kitsch, e ce n’è uno più distaccato, dove la nostalgia cede il posto alla rielaborazione, anche a costo di guardare in faccia senza sconti le proprie mancanze. In questo Memoria di un addio (ed. alpha beta Verlag), che è tra i primi libri di Tumler che assimilano la lezione delle avanguardie letterarie del secondo Novecento, il modo distaccato assume un che di dostoevskijano, in sintonia con il “sottosuolo” dove vive il protagonista.
Chi ha amato la sottigliezza con cui Robert Musil rende al microscopio i moti della psiche, saprà apprezzare la lucida precisione con cui il narratore di questo breve romanzo si accosta a mano a mano al momento terminale di un amore, per poi sviscerarlo. Sempre che amore fosse, perché ciò che emerge durante la lettura è inequivoco: l’uomo in passato è stato un egoista e un insensibile, e solo adesso, nel tempo della narrazione, si perita di riaffrontare quei momenti allo scopo – non si sa quanto riuscito, vista la solitudine cui è approdato – di diventare un uomo migliore.
Una volta entrati nel passo lento di questa prosa, il racconto si legge difilato, degustandolo pagina dopo pagina, prima di incontrare in appendice un saggio della traduttrice, la studiosa Maria Luisa Roli, che illumina il testo con un’interpretazione esaustiva. Conclude il volume un contributo di Alessandro Costazza, che di Tumler è specialista e qui ne affronta, tra l’altro, la delicata ricezione nel dopoguerra. Prima di aver frequentato il celebre Gruppo 47, infatti, Tumler aveva simpatizzato apertamente per il nazismo, fino a declinare di conseguenza anche i suoi primi lavori letterari. (Ma anche Cioran, se è per questo, etc. etc.)
Il fatto che ora l’editore meranese alpha beta riproponga in edizione riveduta questa prima fra le opere maggiori di Tumler fa sperare in un prosieguo simile a quello che ha visto compiersi, proprio l’autunno scorso, la pubblicazione in lingua italiana delle opere di Anita Pichler (1948-1997), anche lei annoverata tra le voci fondanti della letteratura sudtirolese – tanto che nel 2018 a Bolzano le è stata dedicata una piazza. Oggi i “romanzi poetici” di Pichler sono disponibili, tradotti da Donatella Trevisan, in un cofanetto cui si affianca, nel meritorio lavoro di questo editore, la corposa antologia di norbert c. kaser (rancore mi cresce nel ventre, trad. di Werner Menapace, 2017), il poeta ribelle che della letteratura sudtirolese è ritenuto il vero e proprio capostipite. Mancherebbe solo, a completare il podio delle auctoritas, il suo più mite collega Gerhard Kofler, che però si traduceva già da sé – e alla sua opera è pur sempre dedicata un’originale esposizione, aperta fino al 31 marzo, nella nuova biblioteca civica di Bressanone.
L’editore alpha beta, tuttavia, non si limita a portare in italiano le piccole pietre miliari della piccola ma fiera letteratura sudtirolese. Il suo catalogo è popolato anche di nomi italiani, a testimonianza di una scena, si diceva, tutt’altro che dormiente e non fatta soltanto di scipito sottobosco. Due esempi quasi a caso fra le uscite più recenti: il breve e accurato romanzo storico su Carlo V Todos Caballeros di Lucio Giudiceandrea, noto giornalista Rai locale, o il noir psicologico L’ultima madre del bolzanino Alex Boschetti, che attinge al lato oscuro del genius loci. Ma anni fa, per dire, ci pubblicò anche il trentino Michele Ruele: Dissolvenze K, un romanzo su Kafka a Merano.
A proposito: e il Trentino? Ce l’ha un Tumler, il Trentino? O un kaser, una Pichler, un Kofler? E una scena letteraria vivace e cooperativa, anche giovane, intraprendente, raccolta attorno a un patrimonio comune di calibro sovraregionale ce l’ha, il Trentino? Qualcuno mi illumini, di grazia, perché da qui, dallo spoglio scantinato virtuale di un blog, si vede poco o niente.