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''Abbi sogni'' fa il pieno di applausi. Tra Baustelle, Springsteen e Benvegnù alla fine c'è anche un cane che abbaia

DAL BLOG
Di Il Lanternino - 01 ottobre 2023

di Stefano Zangrando, docente, traduttore e autore

Le premesse, al teatro Remondini, erano quelle di uno spettacolo fuori dalla norma – e così è stato. E non perché gli artisti che si sono esibiti sullo stesso palco non l’avessero mai fatto prima.

 

L’idea è venuta a Mauro Spigarolo dell’associazione Dif.fusione88 assieme al tecnico del suono e arrangiatore roveretano Marco Olivotto: affiancare a Giulio Casale, cantautore di origini trevigiane e di stanza a Bassano del Grappa, la cantautrice jesina Cecilia Quaranta alias Talèa per un doppio concerto all’insegna di un imperativo alato: «abbi sogni», così il nome della serata, rivolto a un “tu” che sottendeva ognuno.

 

Chi fra gli spettatori era arrivato a venerdì sera senza farsi domande su quel titolo, magari neppure sentendoci l’eco dell’«abbi dubbi» di Bennato, è attirato al più tardi all’ingresso in teatro dentro un’atmosfera di raccoglimento: al centro del palcoscenico, accanto a un pastore tedesco accomodato con agio, accoglieva i presenti, in una luce violacea inanellata di giallo, l’etereo handpan suonato dal suo padrone. Willy è un musicista di strada e con il suo cane Tao ha conosciuto più volte la mano dura del potere cittadino contro la sua forma d’arte non istituzionale, ma qui, nella sera dedicata a ogni alterità, sono loro il comitato d’accoglienza. Solo a Tao non è dato di capirlo fino in fondo e, agli applausi del pubblico, salta su e abbaia.

 

Al loro ritirarsi – “Salve”, dice Willy alla platea – è la cover casaliana di Un romantico a Milano dei Baustelle, dedicata a Luciano Bianciardi, a diffondersi dalle casse finché i tecnici sgomberano il palco lasciando solo l’occorrente per la duplice performance. Sulla destra, una scrivania su cui sono ammucchiate decine di libri incarna l’ex-dimora di Giulio, un senzaterra per il quale il capoluogo lombardo è forse il solo luogo in Italia dove sentirsi a casa. Ma l’attenzione adesso va al set a sinistra, tastiera chitarra acustica beat pad, dove Talèa s’insedia nella penombra mentre, sullo sfondo, voci sovrapponendosi ripetono: «Il caos, la confusione, la stranezza sono un’occasione».

 

È il motto del suo ultimo lavoro, Aura, che prende il titolo dalla forma di cefalea cronica che l’ha ispirata alla stregua di una metafora – quasi «un sogno ad occhi aperti» –, nonché di un viatico sui generis alla conoscenza di sé. Talea, in larghi abiti neri e una sola fascia gialla che prolunga sotto la vita, fino ai piedi nudi, la linea dei lunghi capelli ricci, attinge quasi esclusivamente da questo repertorio recente alternando basi digitali, ritmi e campionamenti alle versioni unplugged di altre tracce. E se nel primo caso le sue movenze accompagnano il cantato come un rituale magico, nell’accompagnamento con le sole sei corde si apprezza di più la dinamicità di una voce che sa muoversi tra grazia e potenza, fino a risuonare solitaria per chiedersi, in Vuota, «come suonano i rumori se non sono spari»: suonerebbe anche poetico se non evocasse il drammatico.

 

Sconnessi, scritta con Antonio Aiazzi, dice poi di «tentativi di trovarsi» evolvendosi in suggestioni drum&bass, mentre Caleido parla di una vacanza che diventa viaggio interiore. Ma è con la cover di Svalutation, con tanti saluti al Molleggiato, che il pubblico viene coinvolto attivamente, sollecitato quanto basta per assorbire il culmine catartico di Bianco, dove Talèa si muove fra tastiera e pads e due diversi microfoni, lasciandosi distorcere la voce per un canto a mezza via tra la filastrocca e il sabba, approdando all’attestato di sublime velleità che apre e chiude il suo disco: «continuo a scavare l’acqua», canta lei, un po’ come chi sogna in un mondo che ha smesso di farlo. Il congedo è affidato ad Amandoti dei CCCP, che nella versione dell’artista marchigiana ha una delicatezza nobile, molto meno lagnosa dell’originale. Il pubblico è invitato a cantare, e lo fa, e l’ultimo verso – «che sia per sempre» – è consegnato alla voce solitaria di un uomo in platea.

 

L’applauso finale è ancora ai massimi decibel quando appare sul palco anche Giulio Casale, camicia a quadri bianchi e neri, jeans arrotolati al ginocchio e piedi nudi pure lui, e arranca un po’, una valigia sotto un braccio, come chi non ha una dimora, e non c’è pausa o interruzione: parte All’uomo, un brano inedito – e non sarà l’unico – che solo i sostenitori di Casale su Patreon conoscono. Talèa è seconda voce mentre lui canta l’approdo al saper / sapersi perdere – che spesso è il prezzo della libertà, quella vera. Del resto, si chiede Casale nella coda mentre Talèa lo accompagna frastornandoci con un verso in inglese in sette quarti, «c’è mai stato un tempo per cuori puri»?

 

Sono in inglese anche le prime parole recitate dal nostro: dalla sua scrivania Giulio Casale cita lo Springsteen di The river con toni in parte canzonatori come ne ritroveremo nel corso dei monologhi più o meno preparati che da adesso in poi si alterneranno alle sue canzoni. Sia detto ora per tutto il rimanente: se un limite del concerto è stato quello delle basi musicali, che sempre fanno sentire la mancanza di musicisti in carne ed ossa (oltre a uscire sempre un po’ impastate dalle casse), l’altro è quello che Giulio Casale, pur navigato nel teatro canzone, non si è dato in alcuni di questi monologhi, preso com’era da un’urgenza espressiva più agonistica e politica che in ogni altra fase della sua pluridecennale carriera, come voce degli Estra prima, da solista poi.

 

Che le sue prime battute patissero l’irritazione di un microfono mal funzionante, c’entra poco. È il messaggio che spinge, e la sua componente di critica alla civiltà: Freud ha ormai poco da dire, afferma Casale, giacché da una trentina d’anni a questa parte e per la prima volta nella storia siamo diventati più realisti del re, pragmatici come non mai, più bastardi di sempre, e tutti presi a far parte della “normalità” dettata dai nuovi media, ovvero ad essere “normali”, e dunque “normati”, e intolleranti a ogni forma di eccezione o deviazione da questa regola o regolamento. Risultato? Non sogniamo più, non c’è più l’altro né l’altrove, l’unico sogno rimasto è «il sogno del consumo», e il solo linguaggio quello del luogo comune, un luogo «autoritario».

 

Non resta che schierarsi «dalla parte del torto», come vuole il titolo dell’album datato 2012 – in una linea che va da Lolli a Capossela – da cui Casale trae due brani di seguito, La mistificazione e Apritemi, a ricordarci che «se l’unica idea che rimane è esercitare il potere, l’inferno è questo qui», per poi chiedere ascolto, accoglienza nella forma di un “io” che si rivolge a un “voi”. Il che arriverebbe con più forza se negli ultimi dieci anni questa non fosse diventata la forma privilegiata del pseudo-dialogo che ognuno intrattiene dal proprio profilo social. Casale lo sa eppure insiste, anche nel parlato, come quando chiede alla platea, non prima di essersi denudato il busto scarno per sostituire la camicia con una giacca: «Ma di cosa state parlando quando parlate di normalità?» La risposta se la dà da solo: non è che assenza di visione, di una visionarietà che nei casi migliori è tutt’uno con bontà e gentilezza – e cita Chaplin, e Simone Weil, e poi Adorno, Heine ed Hemingway, pescando dalla propria scrivania. È incontenibile.

 

Quando poi passa ad omaggiare l’ex-Scisma Paolo Benvegnù con la bellissima Avanzate, ascoltate, è al più tardi a questo punto che si chiarisce la scissione che anima il Casale di oggi: che nel canto accede al proprio demone, o lo accoglie intero nel proprio diaframma, sicché se ne ha un senso di fiorente compiutezza, di piena espressione di sé e del proprio magma interiore nella voce – la stessa voce che però poi si ridà al risolino sarcastico, all’autocitazione ironica, al tono fintamente scazzato come placebo alla pena di un uomo che pure sul palco si muove sovrano, fa quello che vuole, ma che se non canta il proprio animo offeso inquinandolo di speranza o almeno d’amore, non dà il meglio nemmeno di fronte a se stesso.

 

Che sia l’amore, nella variante “eterna” in cui Casale crede convintamente, la forma più pura di ribellione contro la “dittatura del consumo”, lo prova ciò che avviene dopo un medley acustico in cui ha fatto capolino un altro brano dei CCCP, e cioè Annarella, e l’inedita anglo-italiana Siamo, col che Casale passa dal “voi” al “noi” per condividere «un grido nel vuoto». A questo e a quel «non dirmi una parola che non sia d’amore» segue dunque il momento meno intellettuale e più toccante dello spettacolo, una versione di Blood of Eden di Peter Gabriel nella quale intorno a Casale e Taleà, uniti nel canto e per mano, sembra volteggiare il fantasma indocile di Sinéad O’Connor. Anche questo del resto è ri-bellarsi: reagire per ri-suscitare bellezza.

 

Il “noi” che si è creato persiste in Ora o mai più, la coda cresce in luminosità, e la dedica a folli, visionari e diversi di ogni genere non è che uno variazione sullo stesso appello a sognatori e artisti liberi: «uniti, uniamoci, lo splendore del mondo scambiamoci». Si evocano altri filosofi, da Kant a Severino, comici estromessi dal mainstream – Guzzanti e Bergonzoni, che Casale omaggia citandone battute – e poi il cantautore irlandese Damien Rice e di nuovo Bevegnù, ad arricchire l’assemblea di compagni di strada e numi tutelari che hanno detto e «bene detto» quanto il nostro, a detta sua, non ha fatto che ripetere.

 

L’ultimo è Ivano Fossati, da cui Casale prende a prestito la prima persona di C’è tempo, chitarra alla mano e Talèa alla seconda voce, per affermare infine ciò di cui nella prima parte ha denunciato la mancanza. È il tempo in cui «raccontare ai nostri bambini quando è l’ora muta delle fate» e nel nome del quale il padrone di casa, benché non abbia una casa, si prende la chiusa dicendo «io dico che c’era un tempo sognato / che bisognava sognare». Applausi lunghi, e da qualche parte un cane abbaia.

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