Come si vorrebbe che "Il postino" suonasse ancora


Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
Ci mise il cuore. Tutto il cuore che aveva. Quel cuore che pulsava male, troppo male. Fatalmente male. Anche a singhiozzo, però, quelle sue pulsazioni anomale chiamavano con forza la vita. La vita sua. Una vita dentro e fuori la scena: sensibilità e umanità rare. Doti vestite - mai travestite - da un’ironia per niente caciarona: inarrivabile nelle parole e nelle espressioni ma ancor più negli sguardi.
Non può dimenticare Massimo Troisi - non si può dimenticarlo - di chi ebbe la fortuna di “averci a che fare”: su un palco, in un set cinematografico ma più di tutto nel quotidiano della sua contagiosa anormalità. Quell’anormalità, cioè, di un “sudista” orgoglioso ma schivo, allergico al luogo comune e a tutti i cliché sui meridionali. Umile e fulminante, Troisi, come solo Eduardo o De Curtis (Totò). Oppure come Gaber, Dalla, De Andrè e come tanti altri che per maestria artistica e lungimiranza umana mancano ogni giorno di più in questi giorni di smarrimenti, falsità e nichilismi.
Ci mise il cuore, tutto il cuore malandato che aveva, Massimo Troisi. Quando nel 1994 girò “Il Postino”, quando fece girare un mondo intero di emozioni attorno alla sua gigantesca esilità, portò in scena palate di poesia, tonnellate di rispetto e di amore per la letteratura. Ma anche questo – che è tanto – sarebbe comunque poco. Sì, perché il “tanto” di Troisi è l’esaltazione senza comizi e senza retorica alcuna della semplicità. Quella semplicità che fa la differenza tra il vuoto dei soloni di ogni risma ed il pieno di chi i valori li pratica senza esibirli e senza predicarli.
Quel suo cuore in bilico non sopravvisse all’intensità faticosa di un film che regge e reggerà al tempo, alle mode, ai cambiamenti e alle degenerazioni del costume. Se ne andò a film appena terminato Massino Troisi. Se ne andò ma resta. E resterà. Da “Il Postino” (e dalla morte di Troisi) sono passati 30 anni. C’è da celebrare? Sì, c’è da celebrare l’amore per un uomo prima di quello che per un attore, un comico, un intrattenitore, eccetera.
L’amore per Troisi, il rispetto e l’invidia sana per un genio chissà se consapevole. Di quell’amore si può scrivere. E forse descrivere. Si possono usare parole proprie e parole altrui. Si può diluire un sentimento ad alto grado senza che l’essenza cambi sapore.

E’ quel che succede dentro 265 pagine di “ricostruzione” postuma. È solo la ricostruzione puntuale, per molti versi originale e serissima, di un capolavoro cinematografico? Macché, altro non è che un lungo, documentato e intenso ringraziamento. Lo ha redatto Irene Cocco e il 2 ottobre alle 18 sarà presentato a Levico Terme (sala Senesi).
Il libro – ringraziamento a Troisi titola “Il postino, la metafora di un’emozione”. E l’emozione, sì l’emozione, moltiplica la sua attualità pagina dopo pagina nelle storie di quel film-testamento che ha segnato profondamente un universo. Ha segnato chi fu parte di quell’esperienza, chi l’ha vissuta in una sala cinematografica, chi di Troisi aveva avuto stima prima de “Il Postino” e che dopo “Il Postino” ha visto quella stima amplificarsi dentro un arcobaleno di ricordi.
“Il postino – la metafora di un’emozione” è il libro/omaggio scritto da un’autrice/documentarista che ha già altri lavori all’attivo tra il romanzo, il cortometraggio e le riflessioni. Irene Cocco vive in Trentino dove lavora come insegnante di sostegno (a Levico) ma il suo curriculum è ampio. Laurea in lettere e alcuni anni trascorsi in Nuova Zelanda, in Norvegia e in Scozia impegnata nello studio dei processi artistici come terapia presso l’Università Queen Marfaret di Edimburgo. Tornata in Italia, inizia a collaborare con alcune testate giornalistiche. Autrice del capitolo sulla valenza terapica dell’arte nel libro “L’identità imprigionata”, nel 2015 pubblica il suo romanzo d’esordio “Doveva essere per sempre”, nel 2023 un manuale sulla comunicazione efficace “Oltre le Parole”. Dal 2021 si occupa anche di scrittura cinematografica.
Ma tornando al libro si ha la sensazione che Troisi - dalla Smorfia in poi - abbia procurato all’autrice il più solido degli innamoramenti - (lo stesso di tutti i campani ma anche di tutti gli italiani stupiti da come un dialetto a tratti ostico possa trasformarsi in lingua universale). Deve essere accaduto molto prima di cimentarsi nel libro. Quell'impegno commissionato dall’amministrazione di San Giorgio a Cremano (la patria di Troisi) ha prodotto un volume in cui ogni testimonianza è una piccola chicca. Chissà se Troisi se ne vanterà in Paradiso o se – come è più probabile – preferirà continuare a far divertire santi ed angeli parodiando di nuovo Rossano Brazzi come nell’impareggiabile duetto con l’Arbore di una Tv che non ci sarà mai più.

Il libro di Irene Cocco racconta i luoghi, il contesto, la storia e pure il “senso” de Il Postino: le origini, lo spunto, le suggestioni, i ricordi, gli incontri. Il libro entra ed esce (ma in punta di piedi) nella sceneggiatura, negli ambienti, in quel set magico, nei rimandi a Neruda e alla grandezza di Mario/Troisi.
Si regalano ai lettori perfino parti inedite che Giacomo e Furio Scarpelli (sceneggiatori doc) avevano pensato per Troisi, per Philippe Noiret (Neruda), per il regista inglese, per la Beatrice/Cucinotta e per tutti gli altri protagonisti. Non è un libro di aneddoti anche se gli aneddoti abbondano e ti inchiodano alla lettura. Non è un libro di analisi anche se l’analisi sulla qualità umana, attoriale e autorale di Troisi segna tutti i passaggi del lavoro.
È un libro di voci. Le voci di chi fu su quel set, le voci di chi non ci fu ma avrebbe forse voluto esserci con tutto sé stesso, le voci di chi ha voluto volentieri dare un contributo al sentimento che Troisi sapeva riattivare in una battuta ma anche in un silenzio di gesti parlanti.
E così c’è solo da districarsi con nostalgia ed allegria tra la riconoscenza vera di Maria Grazia Cucinotta: “Il vero potere dell’arte è unire le anime”. C’è da condividere Anna Bonaiuto quando dice “Ci voleva parlare di amore, bellezza, politica e da ultimo con i nostri mentori nelle lezioni che apprendiamo e nei valori che ci trasmettono”.
C’è da credere all’amico di sempre, Alfredo Cozzolino, chiamato da Troisi sul set per “proteggerlo”: “Trasformava anche i dettagli più piccoli in qualcosa di prezioso e memorabile”. C’è da applaudire l’affetto di Carlo Verdone alla premiere veneziana cui seguì il dramma della morte dell’attore: “Mentre le luci si riaccendevano ho capito che quel momento sarebbe rimasto nel mio cuore come una delle esperienze più intense e significative della mia vita”. Sono accenni, solo accenni di un caleidoscopio di ammirazione che nel libro ha coinvolto Lina Sastri, Ale e Franz, Francesco Baccini, Rocco Papaleo, Leo Gullotta, Alessandro Preziosi, Giuseppe Gifuni e moltissimi altri esponenti di primo, secondo e terzo grado del mondo dello spettacolo.
Un mondo che a Troisi deve molto e che all’autrice (e ad Alessandro Bencivenga (che ha curato i contenuti extra editoriali) non ha concesso interviste e ricordi ma i colori e le sfumature di quell’emozione che Troisi ha saputo trasmettere pedalando con fatica e convinzione verso il traguardo sempre ostico del sogno, dell’immaginazione, delle radici, della gioia e del dramma. Del vivere, insomma, con tutte le forze ancora possibili, l’amicizia, l’amore e la poesia.