Tutti in fila per il Trento Film Festival, sale dei cinema piene: una grande percentuale di donne tra registe e protagoniste della kermesse


Appassionata di arte e cinema con Chaplin nel cuore
Il miracolo si è avverato anche quest’anno. Le sale cinematografiche (erano mesi che non accadeva), si animano anche col sole. Tutti in fila per assistere al rito del 71esimo Trento Film Festival.
In concorso una trentina di film tra corti e lungometraggi. Una grande percentuale di donne tra registe e protagoniste rivelano l’attitudine femminile per l’argomento della natura, degli spazi infiniti, dei territori da riscoprire e rivelare.
Un documentario in concorso, dell’americana Elisabeth Chai Nasarhelyi con il marito Jimmi Chin, asiatico-americano, è “Wild life”. I due registi premi Oscar per “Free Solo”, presentano una storia che vede un imprenditore americano filantropo Doug Tompkins (ha creato il marchio Esprit e The Norton Face), innamorato della Patagonia tanto da difenderne il territorio, con l’altro grande amore la seconda moglie Kris (ex Ceo di Patagonia), convinta ambientalista.
Due amori s’incrociano in Patagonia, risultato un documentario indubbiamente unico. Doug nel 1968 parte per un viaggio con l’amico Yvan Chouinard in Patagonia per sei mesi. Come non immergersi in paesaggi naturali e incontaminati e sentirsi coinvolti.
Negli anni 90 Doug con la seconda moglie Kris, acquista e conserva oltre 2 milioni di acri di terre selvagge in Cile e Argentina per creare parchi e recuperare la fauna selvatica. L’amministrazione politica non è convinta delle loro scelte. Pensa che ci siano secondi fini. Una storia che diviene tragica, lui muore in un incidente in kayak in Cile nel 2015, ma Kris in suo onore terminerà orgogliosa, il progetto, offrendo 93 mila ettari a sud di Punta Arena al governo di Santiago estremità meridionale della Patagonia Cilena per la creazione di un parco nazionale.
Di grande impatto emotivo l’introduzione del giaguaro in quelle meravigliose e selvagge terre. Un cucciolo viene portato in giro della madre, lei rigorosamente con il collare, scene che ci riportano ai nostri orsi, amaramente sulle cronache del Trentino. Una storia che va oltre le aspettative, dove la capacità di dare un senso alla propria vita raggiunge alte vette di solidarietà e tutela ambientale.
Come l’ultimo lavoro di Werner Herzog, presentato in concorso “The fire within: a requiem for Katia and Maurice Krafft”. E’ vero, la storia dei coniugi Krafft è nota al mondo, con il premiato “Fire of love” di Sara Dosa, ma il taglio che il visionario regista tedesco ha dato, dona una profondità nell’abisso dell’inferno pluridecennale in cui i due vulcanologi sono scesi.
La convincente voce narrante del bavarese Herzog (conosceva personalmente la coppia) ci dice che vuole “onorare la meraviglia del loro immaginario”. E lo fa mostrandoci la sua indagine visionando un immenso materiale lasciato, oltre 200 ore di filmato. E, come in un cerchio, l’ultima immagine di Katia e Maurice ci appare, in Giappone, dalla cima del vulcano Unzen, nel finale più dettagliata. In mezzo c’è la loro essenza, sempre sul filo del rasoio, sull’orlo del precipizio.
Filmati che cambiano nel tempo per testimoniare l’apocalisse, le conseguenze delle catastrofi, la distruzione infinita dell’umanità.
Dov’è l’umanità? Le esplosioni che annientano e rendono tutto immobile, nelle immagini dei due vulcanologi vanno oltre la scienza e divengono Arte. Quando il fuoco della lava incontra l’acqua delle onde, con un Requiem di Gabriel Faurè come colonna sonora, si avverte insieme ai tragici eroi, il mistero della vita.
I disastri delle esplosioni, animali, uomini, annientati. Maurice, Katia con il loro amico, rimangono a filmare per capire fin dove la natura si può spingere. Loro, uccisi all’istante, erano in una zona definita dai giapponesi al limite, sempre sull’orlo del precipizio. Come affiora l’umanità? Come si crea la coscienza di appartenere a una comunità? Un film non in concorso, inaspettato, non è un documentario ma è tratto da fatti realmente accaduti in Norvegia è “Let The River flow-Lasciate che il fiume scorra” di Ole Giaever.
Tra noto e ignoto come la comunità dei Sami, chiamata erroneamente lapponi. Una ragazza Ester, nell’estate del 1979, torna nei suoi luoghi d’origine perché insegna, e viene coinvolta dai cambiamenti in atto nel territorio. Nel rapporto affettivo con il cugino Mikkhal emergono eventi del passato familiare non risolti che s’incrociano a discriminazioni nei confronti della comunità Sàmi (lei nasconde a scuola la propria etnia).
Una diga deve essere costruita, ma sconvolgerà la comunità e il fiume Alta. Nei profumati prati selvaggi le renne possono sfamarsi ma l’identità dei Sàmi, i costumi e i loro canti rischiano di scomparire. Una denuncia che porta allo sciopero della fame ad Oslo, del gruppo, per sensibilizzare l’opinione pubblica e la stessa comunità.
La tragedia è annunciata dallo sguardo della giovane protagonista Ella Marie Haetta Isaksen (ha venticinque anni). Una splendida voce, infatti lei è una musicista Sàmi di Tana vincitrice di premi per la sua canzone originale Luoddaearru. Nel 2017 Ella ha fondato la band Isaksen.
Il film ha vinto, più che meritato, il Premio Cinema per i diritti umani istituito dalla Fondazione Campana dei Caduti e Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani. Il regista norvegese è apparso in video al cinema Vittoria di Trento, il giorno della premiazione, 1 maggio, per ringraziare ed esporre il tema del suo racconto sulla discriminazione intrecciato alla difesa delle acque.